Non molto tempo fa, in un libro dedicato alla figura dell’autore, Carla Benedetti domandava: “Se l’autore è davvero morto, che cosa è mai questa figura che continua a vagare, come un revenant, nel vecchio continente letterario”? Non si capisce come mai la critica letteraria, da Roland Barthes a Michel Foucault, abbia decretato da tempo, senza neanche fare gli scongiuri, la morte dell’autore, ma nel contempo, come uno zombie, la figura dell’autore domini la comunicazione letteraria contemporanea. Non c’è bisogno di fare molti esempi: gli autori rilasciano interviste, firmano autografi, vanno in tv, occhieggiano dalle quarte di copertina dei loro libri. Il loro nome, adeguatamente pubblicizzato, è un ingrediente fondamentale nella strategia del marketing letterario. E d’altra parte, poiché una delle condizioni per stare sul mercato è quella di farsi un nome, anche l’autore sul mercato sta, e bene, quando s’è finalmente fatto un nome. Funziona così dai tempi di Babele: “Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima sia nei cieli, e facciamoci un nome, affinché non ci disperdiamo sulla superficie di tutta la terra!»”. Se ci si vuole fare un nome, bisogna che tutti parlino la stessa lingua, o che almeno tutti leggano lo stesso libro. Viceversa, se tutti leggono il tuo libro, allora sì che sei un autore coi controfiocchi (e se poi quel libro è la Bibbia, sei Dio).
La Benedetti prendeva in verità in considerazione l’ipotesi che la fortuna dell’autore dipenda oggi non da ragioni estetiche o artistiche, ma dalle condizioni del mercato. Ma sosteneva che, quale che sia il ruolo dell’industria culturale nel fenomeno, rimane il fatto che i processi di valorizzazione artistica sono comunque legati alla possibilità di considerare i libri (o i quadri o le fotografie) frutto di un’intenzione autoriale. E tanto più ciò è vero oggi, quanto meno sono oggettive le caratteristiche che fanno di un libro (o di un quadro o di una fotografia) un’opera d’arte. Insomma: visto che nulla più nell’oggetto segnala che ci troviamo dinanzi a un’opera d’arte (vi risparmio l’esempio dell’orinatoio esposto in un museo da Duchamp), non rimane che risalire all’autore. C’è l’autore, bene: c’è l’opera (e pazienza se c’è il rischio di cadere in un circolo vizioso, visto che a sua volta l’autore c’è, perché c’è l’opera).
Poi arriva John Updike, e sul New York Times della scorsa settimana riflette sui nuovi scenari che si prospettano qualora andasse in porto il progetto, firmato Google, di digitalizzazione dell’intero patrimonio librario mondiale. Il finimondo. Non più libri, ma florilegi, composti come le playlist musicali da pezzi prelevati qua e là nell’infinito oceano della rete. A pezzi l’opera, a pezzi l’autore. Un passo dietro Gutenberg: con l’invenzione della stampa, dopo secoli di esistenza malcerta, l’autore poteva finalmente insediarsi nel suo ruolo standosene cautamente in disparte, e lasciando che a parlare fosse il solo libro, visto che per l’appunto c’era – e c’era nella forma che la filologia si sarebbe preoccupata di fissare una volta per sempre. Quando non ci sarà più, sostituito dai più disparati zibaldoni online, toccherà al suo autore di tornare di nuovo sulla scena, di inventarsi mimo o performer, di moltiplicare i contenuti speciali da affiancare all’opera – qualunque cosa, insomma, purché non tocchi in sorte al libro di essere banalmente tagliato e incollato. (E non vedete infatti come musicisti scrittori artisti siano sempre più costretti dal giornalista di turno a starnazzare dopo aver fatto l’uovo, loro che pretendono che dentro l’uovo ci sia tutto, e il giornalista interessato a tutto quello che nell’uovo non c’è, e che per l’autore non può, a rigore, contare nulla?).
A leggere Updike, un simile scenario è quanto di peggio uno scrittore possa augurarsi. Meglio cambiare mestiere, se non si possono più confezionare libri. I libri hanno un inizio e una fine: finiti nella rete, non hanno più né capo né coda. A leggere invece la Benedetti, questo scenario – in cui l’autore muore per ricomparire tutt’al più in panni clowneschi, per la felicità morbosa dei media – è una descrizione epocale falsa, con la quale lo scrittore in crisi di idee pretende di esonerarsi dal compito di creare, con la scusa tutta teorica che non ci sia più nulla da fare (oltre, naturalmente, a del buon marketing).
Per l’uno e per l’altra, sembra dunque che se la descrizione è vera, l’arte è spacciata. Può darsi che sia così. Non sono così addentro al mondo letterario da poter concludere con un sì o con un no. Quel che però è sorprendente, è che tanto nella difesa di Updike dell’onesto mestiere di scrittore, quanto nella complementare critica alla fondatezza di quello scenario condotta dalla Benedetti, non è contemplata la possibilità che quel mutamento di scenario dia anche qualche chance all’arte, al libro, e all’uomo. Nella rete illimitatamente aperta paventata da Updike muore il libro, e con lui l’autore, e quindi l’arte. Nell’universo claustrofobicamente chiuso della teoria letteraria criticato dalla Benedetti muore l’autore, e quindi l’opera, e con essa l’arte. Ma è mai possibile che non nasca mai nulla, e che non si riesca a descrivere il cambiamento epocale, guardando non solo all’epoca che finisce, ma anche a quella che forse (che magari) nasce?
(Sia come sia per il libro, avete letto un articolo pubblicato esclusivamente su un giornale online).