Nihil verum nisi mors”. Con questa vivace epigrafe, salutano i Celtic Frost sul loro sito. Il paradigma della tranquillità bucolica, si dirà: ma una difficile infanzia e un tenore di vita non da cartolina fanno di Tom Gabriel Fischer (o T.G.Warrior, secondo le ere e gli umori) un cittadino non modello, ovvero non rispondente ai quieti canoni dei Cantoni svizzeri. Quando, nel 1982, raduna il bassista Steve Warrior e il batterista Bruce Day per formare gli Hellhammer, Tom ha già aspirazioni chiare: la New Wave Of British Heavy Metal è per lui riferimento basilare e punto di partenza; il sound di gruppi ammirati come Venom e Raven, obiettivo da raggiungere e surclassare. Bruciata la prima formazione, sostituiti Warrior e Day con Martin Eric Ain (da lì in avanti suo alter-ego) al basso e Stephen Priestley alla batteria, produce un ep che guadagna attenzione e stima nella scena underground; il progetto tuttavia non soddisfa il duo Fischer/Aim e gli Hellhammer escono di scena, sostituiti dal primo nucleo dei Celtic Frost. Nell’Ottobre ’84 incidono “Morbid Tales”, segnale di avvio di una burrascosa e devastante (per il gruppo e per il genere) affermazione di un sound in sé unico, che avrebbe raccolto schiere di discepoli: l’unione di gotico, trash, doom ed epic con elementi di classica, composti ed eseguiti con straniante distacco, carne e sangue sotto i ferri dell’anatomopatologo.
Gli ep “Emperor’s Return” (’85) e “Tragic Serenades” (’86) e il full-lenght “To Mega Therion” (’85) sperimentano il sound definitivo di “Into The Pandemonium” (’87), punta massima, in quel momento, non solo della band ma di tutto il genere. Già definito nella copertina (la celeberrima raffigurazione infernale di Hyeronimus Bosch dal trittico “Il giardino delle Delizie”), l’album mescola generi, epoche e suoni con sorprendente disinvoltura; sacro e profano, elettrico e acustico, brutalità chitarristica e soavità del violino, canto gutturale e voce femminile in chiave chansonnier. Apprezzato e detestato con eguale intensità, rimane un capostipite, una summa metallis a cui guardare per successive anatomie.
A questo punto, l’inquietudine personale, i dissidi con la casa discografica e la stanchezza creativa, esigono il peggiore dei tributi: a un passo dallo scioglimento, Fischer si lascia coinvolgere in un progetto nel quale non crede nemmeno per contratto. Con una formazione del tutto rinnovata incide “Cold Lake” (’88), improvvisa svolta glam-rock talmente ingiustificata – sia dal punto di vista musicale, sia per il limitato spessore artistico – da distruggere in un secondo quanto di buono la band aveva costruito in anni, alienando il favore dei critici e anche quello dei fan più accaniti. Fischer corre ai ripari con “Vanity/Nemesis” (’89), ritorno a uno stile più vicino a quello di “Pandemonium”: il tentativo riesce solo in parte, tanto sotto l’aspetto artistico quanto per l’esito commerciale. La band decide di smobilitare, sopravvivendo negli anni Novanta grazie ad antologie, ristampe, live e bootleg; Fischer riparte con gli Apollyon Sun, per tornare ai Celtic Frost: nel ’99, con Aim al fianco e i nuovi Erol Unala (già chitarra negli Apollyon Sun) e Franco Sesa (apprezzato batterista svizzero) inizia a lavorare a un nuovo album. Incisioni e attesa durano ben sette anni, sino alla primavera 2006. “Monotheist” è un eccellente ritorno, caratterizzato da un sound più cupo e raggelato, nell’ambito della consueta, ampia gamma di sfumature: dal black al doom, dal gotico alla new wave, da evocativi cori femminili a gutturali invocazioni lovecraftiane. A vent’anni esatti dal loro miglior lavoro, i CF appaiono rigenerati, di nuovo padroni dei propri mezzi e in grado di confrontarsi con una generazione di successori.