La coppa del mondo è un teatro dei paradossi. A chi piace veramente? Gli adepti dello spettacolo, quelli che, per ingenuità o marketing, impiegano come metro di giudizio il numero dei goal per giudicare la qualità calcistica, non saranno certo soddisfatti di come vanno le cose. Ma anche i competenti, quelli che hanno sempre cordialmente odiato il calcio-champagne, storcono giustamente il naso. Molte partite sono risultate noiose non perché tattiche (magari) ma solo per lentezza, impaccio, approssimazione. Non si vede l’ombra di un gioco che possa collocarsi sulla frontiera dell’innovazione, o anche soltanto essere additato a esempio: magari per lamentare la fine delle geometrie stilisticamente belle a vedersi nel caos organizzato dei venti-trenta metri centrali, il luogo dove si consumano ormai le sorti di un match. Né si capisce come sarebbe possibile il contrario, dal momento che i team nazionali non sono in grado di far fronte adeguatamente alle sfide della modernità e ai suoi imperativi di gioco (velocità d’esecuzione, occupazione degli spazi, pressing e interdipendenza dei movimenti senza palla, distanze variabili e sincronismi tra e nei diversi reparti). Gruppi inevitabilmente poco organizzati, anzi spesso improvvisati, esprimono un football di livello inferiore a quello dei grandi club. Nell’epoca del football globale, la dimensione nazionale è in crisi.
Eppure, come negarlo, si percepisce un pathos e un simbolismo che investe un po’ tutti. Si dirà che la manipolazione mediatica plasma l’evento, sulla base di interessi economici e di potere. O che miti e simboli di carattere nazionale sono destinati a irrobustirsi, non a deperire, proprio perché occupano il vuoto identitario generato dalla globalizzazione. Ma questi esercizi socio-culturali lasciano il tempo che trovano. Non vanno al cuore della questione. Il fatto è che nel football alberga, per chi lo sa cogliere, un “passato che non vuole passare”. E’ questo uno dei segreti del suo persistente fascino, sinora capace di resistere a spettacolarizzazioni e scandali. Certo, un’epoca è definitivamente tramontata, quella dei grandi club di scuola nazionale e delle squadre nazionali basate sull’ossatura di singoli club, quando “le grandi squadre nazionali in fondo erano squadre di club che cambiavano maglia” (P. Caioli). La leggendaria Ungheria del ’53-’54, archetipo di quell’epoca, altro non era che la Honved di Budapest. Già allora club multinazionale, non ebbe mai un simile ruolo il grande Real Madrid per la Spagna (che infatti ha sempre recitato ai mondiali il ruolo di comprimaria, fino ai nostri giorni). Lo ebbe invece l’Ajax di Amsterdam per l’Olanda del ’74 e ’78. Lo ebbe la Juventus per l’Italia del ’78 (la migliore del dopoguerra) e dell’82 (campione del mondo). Tutto questo è finito per sempre.
E tuttavia, qualcosa di quel passato è ancora con noi, a cavallo tra realtà e immaginario collettivo. L’evoluzione del gioco ha scardinato le tradizioni. Impossibile concepire oggi, tanto per dire, il modello di marcatura a uomo che segnò tante gesta della scuola italiana (chi può dimenticare Gentile su Maradona, 1982?). Ci siamo adeguati, come tutti. Persino gli inglesi hanno imparato a giocare con la palla a terra. Persino i brasiliani si sono acconciati a chiudere le maglie della zona. Ma una traccia di quelle antiche scuole persiste, fosse solo come spirito impalpabile. Restiamo all’Italia. Non c’è forse il segno di una lunga tradizione nella nostra condotta in questo campionato? Anzitutto nella capacità difensiva, da sempre l’autentica carta vincente della scuola italiana. Alla vigilia delle semifinali, siamo la squadra che ha incassato meno goal (uno soltanto). Cannavaro è il miglior difensore centrale del torneo, Buffon il miglior portiere. La stampa di mezzo mondo ci ha criticato al limite dell’insulto (e oltre) per il nostro cinico utilitarismo. La sonante vittoria nei quarti sull’Ucraina non ha modificato questa immagine (ed è giusto così). Tutto ciò suona alquanto familiare. E ci ricollega a un mito ancora capace di persuadere e mobilitare. Sarà solo il nostro immaginario, o solo stereotipi anti-italiani agitati da sempre, specie in Germania? La risposta non è così semplice. L’immaginario contiene un nocciolo di verità. Le tradizioni sono oggi trasformate e stravolte. Ma qualcosa di esse resiste e crea identificazione.
Aggrappati alle nostre certezze difensive, siamo arrivati alle semifinali seguendo un calendario eccezionalmente benevolo. Nessuna grande incontrata sinora. Superata con fatica e fortuna la modestissima Australia negli ottavi: prestazione che ha evidenziato i nostri limiti anche grazie a scelte autolesionistiche del ct (schierato e addirittura tenuto in campo malgrado l’inferiorità numerica il declinante Del Piero, sempre fallimentare ai mondiali: se nel ’98 al suo posto avesse giocato l’immenso Roberto Baggio, scelleratamente tenuto in panchina, avremmo liquidato la Francia e la storia di quel mondiale sarebbe cambiata). Al contrario, superata con facilità l’Ucraina nei quarti. Ma il coro di elogi immediatamente levatosi è ingannevole: gli ucraini hanno lasciato praterie aperte, senza supportare Schevchenko, che a sua volta non si è sprecato; ciò nonostante hanno rischiato di pareggiare sullo 0-1 e colpito una traversa sullo 0-2. I nostri limiti restano, specie a centrocampo dove soffriamo soprattutto in fase di disimpegno e costruzione. I margini di miglioramento non sono molti: posto che la difesa ripeta performace ai massimi livelli (altrimenti è finita) e che l’abnegazione di Pirlo e Zambrotta non conosca pause, essi risiedono in Totti e Toni. Questo è quello che passa il convento.
Ma paradossalmente, alla luce dei risultati nei quarti, potrebbe anche bastare. In semifinale troviamo la Germania padrona di casa, un incontro che rientra tra i classici. I tedeschi hanno fatto fuori ai rigori la squadra migliore del torneo, l’Argentina, che nel primo tempo ha nascosto loro la palla frustrandone i furori atletici ed esibendo una superiorità tecnica imbarazzante. Formidabile Tevez, il miglior giocatore del torneo. Passati in vantaggio, gli argentini hanno avuto il grave torto di non chiudere il match. Decisivo l’incredibile errore del tecnico, che ha lasciato Messi in panchina. La Germania è solida e agonistica, come da tradizione non muore mai. Non ha mostri sacri. Lahm discreto sulla fascia sinistra, Frings e Borowski onesti operatori del centrocampo, Ballack uomo a tutto campo imprevedibile, non sempre incisivo, Podolski e Klose punte mai dome, senza colpi di genio. Difendendoci possiamo batterli. Con loro non abbiamo mai perso ai mondiali (4-3 in semifinale, 1970; 0-0 nelle eliminatorie, 1978; 3-1 in finale, 1982). Nell’altra parte del tabellone la sorpresa principale. Eliminato il Brasile, uno dei più brutti e tristi mai visti nella storia dei mondiali moderni. Zeppo di stelle spente, inguardabile in ogni settore del campo, è stato battuto in modo sconcertante dalla Francia in netta ascesa. Schierati alle spalle di un Ronaldo da pensionare, Ronaldinho e Kaka non si sono mai accesi: forse non si divertivano, per i brasiliani questa psicologia infantile conta parecchio. Roberto Carlos e Cafu non hanno più la forza di spingere sulle fasce. L’assenza di Emerson ha fatto il resto, indebolendo il centrocampo. Commovente Zidane, non certo ai livelli del ’98, ma sempre signore del centrocampo. Makelele e Vieira completano un reparto invidiabile. I francesi non sono impeccabili dietro. Se davanti trovassero il modo di inserire Trezeguet al fianco di Henry, sarebbero ancora più competitivi. Ma anche così appaiono candidati seri alla finale. Se la vedranno con il Portogallo, che ha eliminato ai rigori un’Inghilterra superiore soltanto in teoria, con Rooney pesante e Lampard fuori registro. I portoghesi hanno la loro forza nel reparto arretrato (il portiere Ricardo, R. Carvalho al centro e Miguel sulla fascia destra) e nel possesso palla. Cristiano Ronaldo sembra un’eterna promessa mancata, ma il rientro di Deco sarà un sicuro punto di forza. Però non dispongono di goleador, un grave difetto già pagato caro nella finale degli Europei persa due anni fa.
Una cosa è certa: fuori Brasile e Argentina, il torneo è aperto a ogni soluzione. Molti mondiali non sono stati vinti dalle squadre più forti sulla carta, e neppure da quelle più forti sul campo. Questo non sarà il primo né l’ultimo. Si narra che alla vigilia di un certo match di coppa, a un giornalista che lo apostrofava con un convenzionale “vinca il migliore”, il grande Nereo Rocco così replicasse: “Sperem de no”. Facciamo tesoro di tanta saggezza. ■