Italia mondiale per la quarta volta. Difficile discettare e fare accademia, quando ci si sente nel mainstream della storia (e il Mondiale ha questo potere, ancora oggi). Torniamo col pensiero a Gianni Brera che ventiquattro anni fa, all’indomani del terzo successo, così si rivolse alla squadra: “Hai strabiliato solo coloro che non te ne ritenevano degna, non certo coloro che sanno strologare a tempo e luogo sul mistero agonistico del calcio”. Oggi le sue parole conservano tutto il loro significato. Allora egli inneggiò a “san catenaccio”, elogiando l’arte del difendersi con il coltello tra i denti. Finita l’era della marcatura a uomo, il termine è decaduto. Persino i nostri calciatori e il nostro tecnico ne prendono le distanze. Ma gli azzurri trionfatori del 2006 sono eredi a pieno titolo, degni e valorosi, di quella nobile tradizione. Non si capisce perché dovremmo vergognarcene. La nostra vittoria ha una sola chiave di lettura: il neo-difensivismo. Anzi, questa squadra ha espresso nel modo più puro e limpido quell’antica vocazione del nostro football, modernamente applicata. Nel 1982 avevamo una difesa mostruosa, ma anche un centravanti come Paolo Rossi. Oggi abbiamo vinto di fatto soltanto grazie alla difesa e alla linea arretrata del centrocampo. La finale con la Francia è destinata a costituire l’evento simbolo del neo-difensivismo italiano, il suo apogeo. Guidati dal fuoriclasse Zidane, i francesi ci hanno sopraffatti in mezzo al campo. Mettendoci in affanno ed evidenziando impietosamente i nostri limiti nel disimpegno e nella costruzione del gioco. Inesistente e senza personalità Totti, alla bocciatura definitiva in campo internazionale. Ha portato la croce in solitudine Toni, autore di una traversa e di un goal annullato per questione di centimetri. I nomi degli eroi della finale sono gli stessi di tutte le altre partite determinanti: Buffon e Cannavaro su tutti, poi Materazzi, Zambrotta, Gattuso, Pirlo. Si esalta il “gruppo”, ma a essere onesti l’unico gruppo che conta è questo. Sofferenti ma insuperabili, abbiamo anche sfatato la maledizione dei rigori. La goduria è completata dalla scenetta di Beckenbauer, spregiatore del nostro gioco sparagnino, costretto a consegnarci la coppa. Peccato non aver visionato un’inquadratura della faccia di Monsieur Platini.
La semifinale e la finale hanno rispecchiato appieno i caratteri principali del Mondiale. Partite avare sotto il profilo del gioco, significative sotto quello della tradizione e dell’identità. Il pathos generato dalla memoria di epici confronti storico-calcistici con la Germania e di tenzoni maledette con la Francia ha occupato la scena, creando l’effetto illusionistico di assistere a match appassionanti. E così è stato, ma non per la qualità del gioco, ancor meno per una nostra mutazione offensivistica improvvisa e improbabile. Molti commentatori, ingannati dagli equibri in campo, hanno superficialmente sostenuto che l’Italia avrebbe battuto la Germania attaccando. Niente di più fallace. La chiave di quel match sono stati i difensori e i centrocampisti arretrati. Siamo riusciti a contenere l’impatto agonistico della Germania senza farci schiacciare. Privi di brillanti solisti, i tedeschi non sono mai riusciti a imporci gioco e a guadagnare campo. Il nostro è stato un approccio difensivo moderno, capace persino di conquistare superiorità nel possesso palla. Ma pur sempre un approccio difensivo. Alla fine loro erano sulle ginocchia, e li abbiamo colpiti con grazia e cinismo.
Con la Francia, altra musica. Tra le nazionali europee, la Francia è quella che appare più in sintonia con la globalizzazione. E’ anzi l’unica che in realtà ne ha beneficiato, invece di subirne danno. La spiegazione è semplice. I francesi non sono mai entrati nell’élite delle grandi scuole calcistiche. Non a caso noi abbiamo disputato la sesta finale, loro soltanto la seconda. Fino alla fine del secolo scorso, il loro miglior risultato in un Mondiale era un terzo posto (1958). Persino l’autocelebrata Francia di Platini non seppe fare meglio (1986). La loro nobilitazione è recente, nasce dal Mondiale vinto nel ’98, ora è confermata dal secondo posto del 2006. Ed è dovuta alla massiccia iniezione di giocatori provenienti dalle ex colonie, dove nel frattempo il football si è irrobustito e affinato come in moltissimi altri paesi extraeuropei. Non avendo un’autentica tradizione calcistica (e neppure club importanti), sono stati colonizzati all’incontrario. Nessuno dei grandi giocatori francesi dell’ultimo decennio ha radici metropolitane. Paradosso dei paradossi, al cospetto della Francia è stata perciò l’Italia a rappresentare più chiaramente la tradizione nazionale europea. Loro hanno giocato meglio di noi, anche nei supplementari. Ma hanno sbattuto la testa contro un muro di gomma al quale non sono del tutto avvezzi. Così forse si spiega il momento di follia che ha estromesso Zidane nel finale (triste vedere uscire così un maestro), ponendo le premesse psicologiche per un rovesciamento delle sorti. Molti critici hanno sollevato perplessità sulla nostra squadra all’inizio e nel corso del torneo. Avevano ragione. I suoi limiti sono tutti confermati, mai vista una squadra vincente priva di autentici assi nella manica sul fronte offensivo. Nessuno di loro ha veramente creduto che si potesse vincere puntando tutto sulla forza del reparto arretrato. Avevano torto. Abbiamo subito soltanto due goal in tutto il torneo (un’autorete e un rigore). Abbiamo mandato in goal numerosi giocatori, spesso i difensori stessi (goal di Grosso e di Materazzi decisivi in semifinale e in finale). Sono queste le basi della nostra vittoria. E’ stato il trionfo del neo-difensivismo italiano.
Come sempre, la finale di un mondiale contiene una sua verità tecnica. Quella tra Italia e Francia non ha fatto eccezione. Entrambe si sono mostrate superiori alle contendenti in semifinale sul piano delle individualità tecniche e della forza di singoli reparti, per poi sostanzialmente annullarsi tra loro. Ma questa verità è valida anche in un panorama più generale. L’unica altra squadra del mondiale che ha esibito le caratteristiche per aspirare alla vittoria è stata l’Argentina. E’ uscita per sfortuna (ai rigori) e per errore tecnico (il mancato impiego di giocatori decisivi in avanti). Del Brasile meglio non parlare: mai così inguardabile, ha sprecato malamente un potenziale enorme per mettere in campo senatori esausti. Risorgerà tra quattro anni, si accettano scommesse. Tutte le altre non avevano le carte in regola. Se guardiamo ai migliori giocatori del torneo, i conti tornano ugualmente. Il Mondiale è stato una carrellata di talenti inespressi e di stelle che non si sono accese, per loro colpa o per responsabilità tecniche: Ronaldinho, Kakà, Emerson, Drogba, Messi, Nedved, Schevchenko, Ibrahimovic, Fabregas, Gerrard, Lampard, Robben. I migliori non vanno cercati tra questi. Il giusto approccio è di suddividerli nei ruoli fondamentali (ma se dovessimo indicare quello che ha più impressionato diremmo l’argentino Tevez). Portiere: Buffon. Difesa: Cannavaro. Centrocampo: Zidane. Attacco: Henry. Due italiani, due francesi. Indicando i secondi, ecco cosa risulta: Ricardo, Thuram, Pirlo, Klose. Nel complesso, tre italiani, tre francesi, un tedesco, un portoghese. E’ un risultato che si commenta da solo.
Il Mondiale 2006 si è chiuso sotto il segno delle scuole nazionali europee. Una tradizione ormai impallidita, filtrata dai rivolgimenti tecnici e globali dell’ultimo ventennio. Ma una tradizione riconoscibile e resistente. Che anzi sopravvive soltanto grazie ai team nazionali. Se guardiamo infatti ai grandi club, lo scenario appare da tempo completamente trasformato: esprimono il più alto livello del football dei nostri giorni, ma sono estranei e irriconoscibili alle continuità nazionali. Le differenze di gioco che di volta in volta possono intercorrere tra Barcellona e Real Madrid, tra Chelsea e Arsenal, tra Milan e Juventus, non sono leggibili in chiave nazionale: richiedono altre letture, legate alle personalità e alle scelte del tecnico e dei giocatori. Invece i team nazionali esprimono un football di livello inferiore, ma conservano quel che resta di antiche eredità. E’ il segreto del forte appello esercitato dall’evento mondiale, della sua carica simbolica. Estremo ma irriducibile retaggio di un occidente europeo refrattario all’americanizzazione e capace di risonanza egemonica in tutto il mondo (con la sola eccezione degli Stati Uniti, che però la devono subire), il football globale sarebbe inconcepibile senza i grandi club ma anche senza le competizioni a base nazionale. Siamo in cima al mondo, anche se non è proprio esatto. Ma è giusto illudersi che sia così, almeno per un po’.