Quella che sta andando in onda dalle strade francesi è la versione ridotta di una nobile corsa ciclistica un tempo nota come Tour de France e oggi declassata a onesta corsa di paese o poco più.
È che per oscure ragioni la furia giustizialista francese e la jella più nera si sono alleate per eliminare dal Tour i migliori corridori in circolazione e per lasciare indisturbati noi spettatori ai placidi sonni dei pomeriggi di luglio.
A falcidiare il livello tecnico della corsa ci si sono messe prima le scriteriate decisioni degli organizzatori, che sulla base di quello che finora è meno che un malevolo sospetto hanno lasciato a casa i due favoriti – Ivan Basso e Jan Ullrich – insieme a una buona manciata di altri probabili protagonisti, e poi una certa dose di sfortuna che ha messo fuori gioco, tra gli altri, anche il corridore superstite più accreditato, Alejandro Valverde, giovane promessa spagnola, finito banalmente a gambe all’aria a pochi chilometri dall’arrivo di una tappa facile facile, lasciando sull’asfalto una clavicola.
E così seconde punte, gregari e portatori d’acqua si sono trovati da un giorno all’altro promossi ai ranghi di capitani, e onesti pedalatori di centroclassifica a contendersi la maglia gialla di Parigi.
Chi alla vigilia sperava in un Tour rivitalizzato dall’abbandono di sua maestà Lance Armstrong si trova a fare i conti con una corsa anarchica, senza padroni, ma anche senza congiurati pronti a contendersene l’eredità.
Non che al Tour non siano rimasti buoni corridori e ciclisti talentuosi. È che manca l’epos; tolti di mezzo i favoriti, non ci saranno le lotte tra i giganti, l’epica delle sfide all’ultimo sangue tra eroi predestinati, i duelli che dividono gli appassionati in opposte fazioni e che hanno scritto quasi ogni edizione del Tour nelle pagine della storia dello sport. Il ciclismo di questo vive, di duelli, di rivalità tra giganti, di imprese leggendarie contro le montagne e contro avversari imbattibili. Se togliete gli avversari imbattibili, i mostri e i giganti a lottare tra loro, resta solo l’immane fatica di pedalare per duecento chilometri al giorno contro nessuno. Non proprio uno spettacolo.
Dopo una settimana di corsa, per capirci, a giocarsi la vittoria finale ci sono ancora una quindicina di corridori, nessuno dei quali sembra avere il talento, la classe, il carisma per ergersi almeno un poco al di sopra della mediocrità generale. Nomi per lo più sconosciuti al grande pubblico e che senza le esclusioni eccellenti avremmo trovato solamente scorrendo verso il basso le classifiche di tappa sono oggi al centro di analisi e commenti dei soli esperti.
In simili condizioni, entusiasmarsi sapendo che si sta vivendo il massimo che uno sport può offrire, ma anche solo azzardare un pronostico, scegliere un corridore per cui appassionarsi e fare il tifo – i requisiti minimi, insomma, richiesti da ogni appassionato – tutto ciò diventa un esercizio assolutamente impraticabile, e le scaramucce che andranno in onda in questi caldi pomeriggi uno spettacolo ben triste per chi è abituato ai duelli dell’Iliade.
E se state pensando che, trattandosi del solito ciclismo malato di doping, la cosa non vi riguarda, fate attenzione: quello che stiamo vedendo sulle strade francesi è l’anticipazione del paradosso che con ogni probabilità vivremo nel prossimo campionato di calcio, dove le squadre che hanno fornito la metà dei giocatori della nazionale campione del mondo dovranno giocare nelle serie minori, mentre a contendersi il titolo di campione d’Italia sarà un nugolo di rincalzi onesti ma mediocri. E cioè: un campionato di serie B di livello tecnico ben più alto della serie maggiore. Del resto persino il Giro d’Italia – fino a ieri snobbato dai grandi nomi – quest’anno ha schierato più campioni del Tour de France. E anche questo è un paradosso.