Correva. Ansimava. A un tratto gli si è impallato lo sguardo e le gambe sono diventate pesanti. Da corridore esperto conosco quello stato: è il preludio della resa. Anche lui l’ha capito e mi ha detto: “Lasciami qui”. “No maestro – era il suo nome per la durata della missione – non ti lascio. Ti riporto a casa. Vivo o morto”. Gli ho urlato improperi in faccia per scuoterlo, per vedere se reagiva. Ha ripreso a correre, al centro della strada che attraversava quei dannati saliscendi nella boscaglia, la nostra Hamburger Hill. Gli correvo davanti cercando una via d’uscita da quell’inferno verde. L’appuntamento avrebbe dovuto essere in uno spiazzo poco fuori la stazione dei treni. Lì un mezzo di trasporto avrebbe dovuto prenderci e portarci all’aereo che aspettava in pista con i motori accesi. L’appuntamento era per l’1.00 a.m. Non oltre. L’aereo aveva l’ordine di tornare. Non ce l’avremmo mai fatta. Capivo che stavamo girando a vuoto. Le comunicazioni erano tutte saltate. Eravamo isolati. Dovevamo cavarcela da soli. Ogni tanto mi giravo. Lo vedevo dietro arrancare e trascinare il grande zaino che ci era stato dato in dotazione. Eravamo senza viveri e acqua da più di undici ore. Ogni tanto incontravamo gruppi di persone che vagavano senza una meta apparente, storditi e sfiancati. Come noi. Non c’era tempo per fermarsi. Ognuno per sé. Inutile chiedere o dare aiuto e indicazioni. La notte era percorsa da lampi sinistri di luce giallastra. In lontananza si udivano i tipici rumori di una colonna di automezzi in movimento: rombo di motori, frenate, urla, concitazione. Poi un posto di blocco dei militari locali, storicamente rigidi e inflessibili. Mi fermo. Dico qualcosa in inglese. Chiedo indicazioni. Non mi rispondono. Si limitano a dirmi che devo camminare ai lati della strada. Vado avanti. Poi mi ricordo che dietro ci deve essere il maestro che non parla l’idioma locale ma conosce gli uomini dallo sguardo, come ama ripetere spesso. Mi volto. Lo vedo impegnato in una animata quanto improbabile discussione con i militari. Questi ultimi all’improvviso lo bloccano. Lui reagisce, si divincola e fugge. In quel momento, mentre gli lancio urla di incitamento, i nostri sguardi si incrociano: il suo è fiero e furbo allo stesso tempo. Il maestro è tornato.
Lo incontrai all’inizio di questa avventura, sull’aereo che ci portava sul luogo della missione. Parlava da veterano. Da uno che nella vita ne ha viste e fatte tante. Non me lo disse, ma credo che questa sarebbe stata la sua ultima missione. O forse mi piace pensare che lo sarà. Raccontava molte cose, il maestro. Di mondi che ha frequentato fatti di belle donne, uomini affascinanti, costumi, trucchi, scene. Io e un altro lo ascoltavamo con interesse e gli facevamo molte domande. Lui rispondeva, ammiccava, alludeva. Era bravo a raccontare, il maestro. Il suo sguardo, acuto e penetrante, si addolciva quando parlava del figlio. Un enfant prodige nel lavoro, pare. Come la moglie. Una famiglia di fenomeni. Il pensiero mi inquietava. Chissà che si diranno a cena questi qui, pensavo. Una gara a chi è più bravo. Ma noi ora siamo qua. E dobbiamo essere maledettamente bravi per uscire vivi da questa giungla. Bravi e fortunati. Dopo un po’, nonostante il frastuono e le urla, sento come gracchiare e vibrare. E’ il mio cellulare, ormai scarico. Premo nervosamente i tasti e sento dall’altra parte una voce, un idioma amico che ci chiede dove siamo e ci dà le indicazioni del luogo dove ci aspetta l’automezzo. E’ non lontano da dove ci aggiravamo,confusi. E’ fatta. Siamo salvi. Portiamo la pelle e la coppa a casa, come si dice. Mi giro preoccupato. Lo vedo lì, in fondo alla strada. Mi raggiunge e mi ringhia: “E’ la prima e ultima volta che uno zoppo come te mi urla addosso per tutto quel tempo”. Io lo guardo, gli sorrido e lo carezzo sul cranio. Intanto i nostri sono arrivati all’appuntamento. Con noi. Con la storia.