Mao Tse-Tung sosteneva che i comunisti, essendo la maggioranza della popolazione mondiale, non dovevano temere la guerra nucleare, perché una catastrofe che avesse decimato uomini e donne di tutti i paesi, facendo tabula rasa dei rapporti di forza tra gli stati, alla fine avrebbe favorito il trionfo del socialismo.
E’ senza dubbio un fatto positivo che tanti di coloro che allora si dicevano maoisti oggi si battano per la pace nel mondo. E noi non possiamo che rallegrarci di una simile evoluzione del dibattito. “Nella peggiore delle ipotesi, se metà del genere umano morisse – scriveva Mao – rimarrebbe l’altra metà, mentre l’imperialismo sarebbe raso al suolo e il mondo intero diverrebbe socialista”. Lo ricordiamo a chi, tra i maoisti di un tempo, oggi indica nel pacifismo assoluto la radice dell’identità e dei valori della sinistra. Ma forse in quella citazione si nasconde un insegnamento anche per i riformisti del centrosinistra.
Otto senatori dissidenti, ansiosi di accreditarsi come campioni del movimento per la pace, da settimane alimentano una squallida competizione interna ai partiti della sinistra radicale che sta sfigurando l’immagine del governo e rischia seriamente di comprometterne la linea politica. Ma dinanzi al loro ricatto, le armi dei riformisti appaiono spuntate. Una simile dinamica ostacola anche la nascita del Partito democratico: il timore di una scissione nei Ds e le resistenze tra i popolari della Margherita spingono i riformisti alla ricerca di una trattativa, a prendere tempo e inventare sempre nuovi passaggi intermedi, dalla federazione alla carta dei valori. A frenare i vertici dei due partiti non è il timore di perdere voti, chiaramente infondato. A frenarli è il timore delle ripercussioni che una scissione potrebbe avere sul precario equilibrio della coalizione. Ed è facile prevedere che la stessa dinamica si ripeterà in autunno dinanzi alla finanziaria, su scala assai più estesa, quando saranno i sindacati a fare pressione.
Per evitare lo scenario “fine-di-mondo”, i riformisti rischiano così di rimanere imprigionati nei ricatti del fronte massimalista. Per evitare una guerra nucleare dentro la maggioranza che porterebbe alla caduta del governo Prodi e alla probabile rivincita di Silvio Berlusconi, rischiano di favorire lo stesso esito, ma in uno scenario perfino peggiore.
Da un lato sta la possibilità che il governo cada per difendere l’interesse nazionale e una linea di politica estera giusta e responsabile, o nel tentativo di rilanciare l’economia del paese onorando gli impegni assunti in campagna elettorale. Dall’altro la possibilità che il governo cada dopo mesi e mesi di logoramento, dopo avere ceduto su tutti i fronti sui quali si era impegnato. Ed è questo lo scenario che i riformisti devono temere, non il primo. Anche perché al momento è il secondo ad apparire decisamente più probabile.
A entrambe le opzioni, naturalmente, è altamente preferibile la possibilità che nell’Unione si raggiunga un accordo ragionevole sulla politica del governo. Ma se questo non avverrà, bisognerà trarne le conseguenze. Bisognerà riconoscere che troppo a lungo si è rinviato il momento della chiarezza e della lotta politica in campo aperto, contro quella sinistra che in nome della pace non esita a riconsegnare le donne afgane nelle mani dei talebani.
Tenere ferma la linea del governo sulla politica internazionale e andare avanti sul Partito democratico, questo è quello che occorre fare adesso. E se le forze della sinistra radicale vorranno brindare con Gino Strada alla caduta del governo, che brindino pure. Vedremo se all’indomani delle elezioni – elezioni cui dovranno presentarsi nella sola e non gradevole compagnia delle loro responsabilità – troveranno ancora motivo di festeggiare. Se quello che vogliono i pacifisti è la guerra termonucleare dentro la maggioranza, i riformisti non devono temerla.
L’esercito non manca. Alle primarie dell’anno scorso, oltre quattro milioni di cittadini sono andati a cercarsi il proprio seggio, hanno fatto file di ore e hanno lasciato i propri dati personali per poter votare. Non si è trattato di rispondere a un sondaggio dal telefono di casa propria, né di esprimere il proprio semplice diritto di voto. Ma di una mobilitazione senza precedenti che è stata a tutti gli effetti un atto di militanza politica, almeno per buona parte di loro. I militanti del futuro partito democratico stanno lì. Aspettano solo di essere richiamati.