Condi goes to Rome

A volte la semplice sequenza dei fatti dice più di mille analisi. Basta mettere in fila i pezzi e provare a osservarne dall’esterno il disegno.
Scena uno: fior di commentatori spiegano come la politica estera del governo Prodi danneggi il prestigio e la credibilità dell’Italia sulla scena internazionale, in una deriva verso posizioni di aperto antiamericanismo, mettendo in crisi i rapporti con il nostro principale alleato, isolando il paese e facendolo scivolare inesorabilmente nell’irrilevanza politica. Scena due: il segretario di stato americano annuncia un vertice internazionale sulla crisi in Medio Oriente cui prenderanno parte tra gli altri, oltre alla stessa Condoleezza Rice, il segretario generale dell’Onu Kofi Annan, i rappresentanti dei governi libanese, egiziano e giordano, insieme a ministri e capi di governo di Russia, Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna. Il vertice, patrocinato da Italia e Stati Uniti, si terrà a Roma (significative prese di posizione dei commentatori di cui alla scena uno, non pervenute). Scena tre: lo stesso governo accusato di avere stravolto la linea di politica estera seguita da Berlusconi, proprio il giorno seguente il vertice, rischia di entrare in crisi in occasione del voto al Senato sulla missione in Afghanistan, per il dissenso espresso sulla politica estera da parlamentari della sinistra radicale.
Se c’è della razionalità in questa follia, noi proprio non riusciamo a vederla. Quello che vediamo è un approccio multilaterale alla nuova crisi in Medio Oriente, dato che al momento l’effetto domino provocato dalla guerra in Iraq non sembra avere portato la magnifica e progressiva espansione della democrazia profetizzata dai neoconservatori. Un fatto di cui l’amministrazione statunitense pare avere preso atto assai meglio dei suoi sostenitori nostrani, come il vertice di Roma testimonia (oltre a testimoniare, ci mancherebbe, il “prestigio conquistato dalla città con le sue tradizioni e le sue promozioni del dialogo per la pace”, secondo il puntuale commento del sindaco Veltroni). Quello che vediamo è una prima verifica empirica – e piuttosto eclatante – del fatto che la ridefinizione della posizione italiana nel rapporto con gli Stati Uniti, nonché tra Israele e paesi arabi, poggiava su un’analisi corretta non solo dell’interesse del paese, ma dello stesso interesse degli Stati Uniti (e di Israele, e dei paesi arabi “moderati”). Le durissime critiche mosse dall’opposizione di centrodestra alle posizioni assunte dal governo, in particolare in merito alla critica della “reazione sproporzionata” di Israele, ne danno la prova a contrario. Se quella della Cdl fosse stata la posizione ufficiale del governo italiano, difficilmente Condoleezza Rice pochi giorni fa avrebbe potuto annunciare il vertice di Roma.
Quello che vediamo – quello che vedono tutti a occhio nudo – è una svolta nella politica estera dell’Italia assai significativa, appena inaugurata e già coronata da un considerevole successo diplomatico. Quello che proprio non riusciamo a vedere, invece, è come tutto questo si concili con la scelta di quei senatori che giovedì potrebbero mettere in crisi il governo, contestandolo da sinistra per scarsa discontinuità. Un fatto che sfugge a qualsiasi forma di razionalità politica. E che dimostra una volta di più come per dare ragione allo sgangherato estremismo di certa destra italiana non ci sia che lo sgangherato estremismo della nostra sinistra radicale. Inutile nascondere che comunque si concluda il voto del Senato sulla missione in Afghanistan, la questione andrà attentamente meditata. Perché un governo può anche mettere in conto di cadere con onore su una grande scelta politica, si tratti della pace nel mondo o della finanziaria. Più difficile è cadere con onore nel ridicolo.