Lo stesso giubbotto in pelle. La stessa identica musica: inutile chiedere a Lemmy di cambiare. Non c’è motivo di farlo, poi.
Ian Fraiser “Lemmy” Kilmister è i Motorhead: non solo perché li ha fondati e ne è l’unico componente originale sopravvissuto (aggettivo particolarmente adatto al soggetto, uno di quei tipi sciupati che a vent’anni hanno già l’aria del reduce); ma anche perché incarna alla perfezione il ruolo del biker, del duro a morire, del mastino deciso a non mollare mai: nel caso specifico, deciso a non mollare quel sound pesante e veloce, incalzante e inesorabile che ha fatto scuola a generazioni diverse e a stili diversi, dal punk allo speed metal.
Ormai quasi sessantunenne, figlio di un vicario (cresciuto a inni sacri), si forma musicalmente negli anni Sessanta, cominciando con due band indigene di Blackpool, Inghilterra (i Rainmakers e i Motown Sect); la gavetta continua con The Rockin’ Vickers, Gopal’s Dream e Opal Butterfly. Si dice abbia anche lavorato come roadie per Jimy Hendrix. Nel ‘71 si unisce agli Hawkwind, con i quali firma per sei mesi; rimarrà in pianta stabile al basso per quattro anni, contribuendo a creare la leggenda del gruppo, già allora oggetto di culto e – più tardi – punto di riferimento per molte band prog, hard e psichedeliche. Arrestato in Canada nella primavera del ‘75 per possesso di droga, Lemmy viene congedato dagli Hawkwind: rientra in patria e si vendica formando un gruppo che porta per nome il titolo dell’ultima canzone da lui composta proprio per gli Hawkwind, “Mötorhead” (la umlaut sulla prima “o”, spiegherà lui stesso, appare solo per farlo sembrare un nome tedesco). Oltre a questo, porta via alla vecchia band il cuore nero, il passo pesante ed il gusto per pestare duro.
Seguirà un percorso di carriera dritto e scintillante come i binari di un treno. E la sensazione lasciata dall’ascolto di un album o di un concerto dei Motorhead è proprio quella di essere stati travolti da un treno in corsa. Da “Mötorhead” (’77) agli ormai classici “Overkill” (’79), “Bomber” (’79), “Ace Of Spades” (’80, il più Motorhead di tutti), passando per “No Sleep ‘till Hammersmith” (’81) primo e più famoso di una lunga serie di live, per approdare agli anni Novanta e ai giorni nostri ancora a tutto gas (nonostante qualche giro a vuoto): “Orgasmatron” (’86), “1916” (’91), “Bastards” (’93) e “Sacrifice” (’95) tengono in corsa la locomotiva fino al 2004 quando esce “Inferno”, album che fa scrivere a più di un commentatore: questo è lo stesso disco che i Motorhead rifanno da trent’anni.
“Kiss Of Death” (’06) potrebbe ottenere la stessa valutazione: tuttavia, il punto è che ai Motorhead (con Lemmy, in pianta stabile dal ‘95 Philip Campbell alla chitarra e Mikkey Dee alla batteria) non si chiede che questo: good-old-hard-and-heavy blues, chitarre sguainate che macinano riff, batteria che tiene alto il ritmo di voga.
Così, anche questo lavoro si ascolta in maximum overdrive: l’aperitivo è “Sucker”, rinforzato dal boogie di “One Night Stand”, prima delle martellanti “Devil I Know” e “Trigger”; “God Was Never On Your Side” è una robusta ballad, struggente e retorica quanto serve; “Christine”, pur dedicata a una fanciulla fa pensare – chissà perché – a un’auto; “Be My Baby” ha nell’attacco e nella struttura i germi del metal anni Novanta; “Kingdom Of The Worm” chiude in bellezza: il treno entra in stazione. E prosegue…
Non c’è altro. Ma mai come in questo caso, accontentarsi è il vero lusso. E se la storia della musica si fa altrove, qui se ne spiegano fedelmente le basi, sempre con quell’odore di pelle, di polvere, di motori surriscaldati. Già sentito, certo: ma non stanca.