Nella passata settimana ha suscitato una piccola attenzione un articolo di Left Wing, in cui si sollevavano dubbi sulla possibilità che l’atto fondativo del nuovo partito democratico possa consistere nella stesura di una Carta dei valori comuni agli aderenti alla nuova formazione politica. Il tono dei commenti riportati dal Corriere della sera era ispirato a una certa ironia. Come dire: siamo tutti uomini di mondo; l’importante è riuscire a fare il nuovo partito; e se questo documento può aiutare a compiere l’impresa ben venga. Ovviamente la pensiamo anche noi così. Di fronte a una classe dirigente che pullula di quelle che vengono definite eufemisticamente “identità deboli”, sarebbe il caso di fare una piccola modifica a un motto di Giorgio Manganelli spesso ripetuto: “Abbiamo bisogno di brave persone in tutti i campi, ma non in letteratura”. Ebbene: non ne abbiamo bisogno nemmeno in politica. Solo che Manganelli era un letterato, e parlava del suo cortile di casa; ma a ben guardare il paese, sembra che ciascuno possa dire lo stesso per ognuno degli ambienti in cui vive e lavora (abbiamo forse bisogno di brave persone nel giornalismo? e nell’impresa? e nella pubblica amministrazione? nella scienza poi? C’è forse insulto peggiore di “brava persona”?).
Left Wing non ha sollevato quel dubbio a caso: una carta dei valori – oltre a rappresentare un passo indietro nella cultura politica del riformismo italiano – si risolverebbe in uno dei tre esiti seguenti: un atto di cinismo, per cui vengono messi sulla carta valori che non hanno alcun valore; un progetto velleitario, che si dà un ideale regolativo talmente astratto da non poter diventare mai concreto; o infine un terreno di battaglia inutile e – nelle condizioni attuali – molto pericoloso: i valori (se hanno valore) sono postulati dell’azione. Per definizione non sono verificabili: sono principi non negoziabili. Ora: dal momento che nel partito democratico dovrebbero convergere esperienze politiche, movimenti, individui, che hanno valori diversi (e in alcuni casi molto diversi), ma che hanno un progetto politico comune largamente condiviso, varrebbe la pena di ragionare non sui valori comuni, ma su come tante diverse moralità possano convivere in un unico partito. Ovvero sul pluralismo etico del partito democratico. Al contrario una discussione sui valori rischia di essere talmente lacerante da rendere impossibile un progetto che avrebbe invece le più favorevoli condizioni politiche per svilupparsi e fare bene.
Per illustrare quest’ultimo ragionamento facciamo un piccolo passo indietro. Nella crisi del berlusconismo il progetto dell’Ulivo ha dimostrato una straordinaria capacità di attrazione: il paese ha visto chiaramente nella riunificazione delle tradizioni del riformismo italiano un nuovo baricentro politico in grado di governare l’Italia e di indicargli un futuro. L’esiguo differenziale elettorale del centro-sinistra sul centro-destra alle ultime elezioni politiche è stato causato, come ben visto da Romano Prodi, dalla timidezza con cui è stata presentata la lista unitaria da Ds e Margherita. Se su entrambe le schede fosse stato presente il simbolo dell’Ulivo, col nome di Prodi, e con questo fosse stata fatta una campagna elettorale unitaria, oggi avremmo una diversa composizione parlamentare e tanti problemi in meno. I Ds, la Margherita (e, aggiungiamo, lo Sdi), condividono gran parte dell’analisi sui problemi attuali dell’Italia, sulla situazione internazionale, sull’Europa. I loro programmi politici sono largamente comuni. Il loro elettorato ampiamente disponibile a trasmigrare da un simbolo all’altro a seconda della competizione elettorale, come dimostrano banali verifiche nei singoli seggi.
Ma questa unità, politicamente così espansiva, scompare appena il confronto si sposta su questioni etiche. Il punto di divisione non è tanto tra credenti e non credenti: un qualsiasi sondaggio rivelerebbe, per esempio, che la proporzione di cattolici praticanti è più o meno la stessa tra gli elettori dei Ds e tra quelli della Margherita. Oltre tutto gli stessi Ds hanno al loro interno una componente esplicitamente cattolica: quella dei Cristiano sociali. Le eticità sostanziali sono irriducibili per il fatto che la Margherita è un cartello di movimenti riformisti cattolici, mentre dall’altra parte abbiamo per lo più riformismi di origine e cultura politica non religiose. Il cattolicesimo non è una semplice religione della coscienza, ma anche una religione delle opere, della carità e della comunità. Il riformismo cattolico, pur avendo chiara la divisione tra politica e religione – e tra Stato e Chiesa – trae ispirazione dalla dimensione comunitaria della religiosità per la propria azione politica. Perché i movimenti cattolici dovrebbero sottoporre i propri valori a un “negoziato” che porti alla definizione di una carta etica comune? E perché dovrebbero fare lo stesso tanti altri cattolici che non aderiscono a movimenti politici di esplicita ascendenza religiosa? E lo stesso dovrebbero fare poi i cristiani non cattolici, o quanti professano religioni diverse dal cristianesimo? E tanti non credenti che – giustamente – rivendicano di avere anche essi un’etica, sebbene non religiosa, ma non per questo più negoziabile (come ci hanno ricordato, tra gli altri, i tanti che negli ultimi tempi hanno gonfiato il petto sul valore “irrinunciabile” della laicità) dovrebbero venir meno alle loro convinzioni? E le etiche laiche non sono a loro volta plurali e diverse? per esempio di origine ambientalista, o pacifista, o umanistica, o illuminista, ecc.? Veniamo al punto: un grande partito di popolo riflette, volente o nolente, la complessità della nazione in cui vive. E il partito democratico si troverà ad avere tra le sue file tutto il complesso di valori morali che anima la vita degli italiani. Tante persone, indipendentemente dalle motivazioni valoriali che le hanno spinte alla politica, si trovano a condividere un progetto per l’Italia e per l’Europa: il loro dialogo rischia però di incagliarsi se nasce con l’obiettivo di ridurre ad unità quei tanti principi diversi.
Ma noi abbiamo un altro sospetto: in tradizioni politiche diverse dalla nostra l’eticismo è moneta corrente. In particolare nel mondo anglo-sassone la profonda continuità con la riforma protestante ha consentito il mantenimento di forme oggettivate di religione di stato che si ritrovano nei partiti politici o in certe forme di stato sociale. In quell’ambiente culturale l’utilitarismo costituisce la cultura politica reale dei partiti, ma il rapporto tra partiti e società, quindi il discorso pubblico, è generalmente declinato in forma etica: con il richiamo alla morale, ai valori, ecc.; messaggi semplici in grado di unificare e mobilitare immediatamente. Non è quindi un caso se negli ultimi due decenni abbiamo avuto un grande fiorire negli Stati Uniti, o nel Regno Unito, di una pubblicistica teorica (di alto livello) sull’uso dell’etica in politica. Chi si lascia abbagliare da questo fenomeno, credendo di vedervi l’avanguardia di una svolta scientifica imminente nell’Europa meridionale, non tiene presente le profonde differenze che i due contesti hanno nella composizione delle loro società civili, e più esattamente nei rapporti tra religione, società e sfera pubblica. Per cui il richiamo all’etica, ai valori, se non è un’ennesima dimostrazione di provincialismo culturale, rischia di diventare un semplice strumento per la ricerca del consenso. Operazione molto rischiosa quest’ultima: un cattolico è diverso da un quacchero, e questo dovremmo ricordarlo tutti, anche i tanti “cristiani rinati” del centro-destra.