Per quanto mal messo si possa considerare l’istituto del matrimonio nell’Italia di oggi, riesce difficile accostare i primi cento giorni del governo Prodi a una luna di miele. L’immagine che viene alla mente è piuttosto quella dell’arrivo in classe del supplente, tra lo svolazzare di aeroplani di carta e ragazzini che si azzuffano indisturbati in ogni angolo dell’aula.
Mentre il centrosinistra si insediava e cominciava a prendere i primi provvedimenti, senza nemmeno accorgercene, abbiamo assistito a un crescendo inarrestabile dalla tragedia alla farsa e poi di nuovo dalla farsa alla tragedia. Nel giro di un anno appena, sui giornali siamo passati da complicate alchimie finanziarie raccontate in romanesco alle opinioni del principe di Savoia sui sardi e le capre, invero espresse in forma non meno vernacolare, per finire a leggere le conversazioni del capo del nostro servizio segreto militare.
Il ministro degli Interni se ne è detto sconcertato. Il ministro della Giustizia ha presentato un disegno di legge per mettere argine al fenomeno, dimenticandosi gli argini lungo la strada. Alla fine non se ne è fatto nulla. In compenso, negli stessi giorni, Mastella ha minacciato le proprie dimissioni in polemica con Di Pietro e ha invocato l’intervento del presidente del Consiglio, che si è ben guardato dall’intervenire, mentre Di Pietro si è prima autosospeso e poi si è rifiutato da solo le sue proprie dimissioni, per tornare a sedere nel governo di quella “Banda Bassotti” – parole sue – colpevole di avere promosso l’indulto. Neanche in questo caso il presidente del Consiglio ha ritenuto opportuno esprimere la sua posizione.
E’ evidente che il problema non riguarda l’azione di governo. Dalle liberalizzazioni alla politica estera, non si può dire che in questi primi cento giorni il centrosinistra sia rimasto con le mani in mano. Ma sono stati cento giorni di solitudine.
Persino nel momento in cui il governo Prodi, con la conferenza di Roma, dava il segno della svolta e del successo diplomatico conseguito proprio in quel campo che secondo tutti gli osservatori avrebbe dovuto rivelarsi come lo specchio delle sue insuperabili contraddizioni, tutti i principali quotidiani dedicavano pagine intere a un problema già oggi ampiamente superato. Paginate intere, interviste quotidiane con tanto di piccola foto per ognuno dei celebri otto senatori ribelli, a immortalare l’augusta irrilevanza della loro fiera protesta, per giorni e giorni. Pagine e pagine. Finché il governo ha posto la fiducia e i ribelli sono rientrati nei ranghi, com’era ampiamente previsto.
Nel frattempo, dalle inquietanti vicende che coinvolgono Telecom Italia alla guerra tra Tronchetti e Repubblica – per restare in tema di intercettazioni, veleni e veline – nessuno sembra curarsi troppo della presenza del governo, né il governo curarsi troppo di nulla. Romano Prodi rischia così di apparire davvero come molti interessati pittori già da tempo lo ritraggono: un presidente del Consiglio supplente. Ma è un problema che riguarda la politica nel suo complesso. E’ la manifestazione plateale della sua debolezza, tanto più evidente nel momento in cui nel paese infuriano le guerre per bande. Al venir meno del potere politico segue il ritorno del feudalesimo. Un processo in atto da anni, ma che oggi sembra toccare il suo apice, sottolineando per contrasto la fragilità della maggioranza.
In questo quadro il presidente del Consiglio Prodi e i suoi due vicepremier, D’Alema e Rutelli, non sembrano affaticarsi più di tanto nel tentativo di guidare la propria coalizione. Misteriosamente impassibile il primo, in altro affaccendati i secondi. Berlusconi si dice sicuro che il governo cadrà in autunno sulla finanziaria. Il segretario della Cgil ha già cominciato ad avvisare Romano Prodi che per quanto gli compete – si fa per dire – il rischio è concreto. E così, dai grandi gruppi economici ai grandi giornali, dagli intellettuali alle forze sociali, il quadro è completo. L’autunno del loro scontento si avvicina e il governo dovrà essere pronto a reggerne l’urto.
In queste condizioni non lo reggerà. Le divisioni e le polemiche che hanno accompagnato l’indulto sono schicchere, con la finanziaria arriveranno i ceffoni. Eppure l’esperienza qualcosa dovrebbe insegnare: l’idea di un governo virtuoso che come la fenice nasce e spicca il volo dalle ceneri dei partiti ha dimostrato sin qui tutta la sua inconsistenza. Il partito democratico è pertanto l’unica carta che resta da giocare al centrosinistra: una carta rischiosa, che almeno sulle prime non potrà che alimentare tensioni e conflittualità, ma anche l’unica in grado di restituire una funzione a gruppi dirigenti che appaiono sempre più esausti (e a gruppi dirigenti almeno in parte nuovi, auspicabilmente). Una funzione imprescindibile, in una partita che altrimenti appare già persa a tavolino, per abbandono del campo da parte della politica e dei partiti. Sempre che nel centrosinistra ci sia rimasto qualcuno che abbia ancora voglia di giocarsela, questa partita.
E’ una domanda cui non tocca a noi rispondere, per ovvie ragioni. Ma per quello che può valere detto da noi e detto un minuto prima di andarcene in vacanza (torneremo on line lunedì 4 settembre), la nostra risposta a quella domanda è semplice: noi vorremmo provare.