Non sussiste l’esimente del diritto di critica allorché un magistrato venga accusato di svolgere indagini politiche, in quanto siffatta espressione, evocando l’intenzione di favorire una determinata forza politica a scapito di un’altra, assume una portata offensiva, risolvendosi in un attacco alla sfera morale della persona”. Non può la critica spingersi sino a sostenere “l’asservimento della funzione giudiziaria a interessi personali, partitici, politici, ideologici”.
Non importa qui la fattispecie concreta, ovvero se le parole effettivamente usate da Vittorio Sgarbi nei confronti del pool antimafia guidato al tempo da Giancarlo Caselli esorbitassero o meno dalla critica per sfociare in denigrazione, come asserito dall’avvocato Guido Calvi. Sono le motivazioni della decisione a suscitare in me, e prima ancora nel pg Enrico Ferri che aveva chiesto l’annullamento con rinvio della decisione della Corte d’Appello di Milano, un radicale dissenso. E ciò per tre ordini di ragioni, che nessuna voce della sinistra ha evidenziato a testimonianza del profondo cambiamento culturale intervenuto nel quindicennio della seconda repubblica sui temi del rapporto tra giustizia e politica.
Come ha scritto Carlo Guarnieri nel libro Giustizia e politica, “se il giudice può scegliere fra interpretazioni alternative, la sua decisione diventa fonte di incertezza per chi viene a contatto con lui. Così facendo, il giudice acquista potere, che è potere politico vista la sua posizione e gli effetti delle sue decisioni”. Mai è stato così vero come nel caso dei reati contestati a tanti nel quindicennio scorso, dall’abuso d’ufficio nella versione antica sino all’associazione per delinquere, o ancor più al concorso esterno nei reati di mafia. La creatività giurisprudenziale, bandiera della sinistra contro il formalismo della legge, deve risolversi nell’ampliamento e non nella restrizione dello spazio di critica alla decisione del magistrato, pena l’estendersi sino all’arbitrio della sua sfera di autonomia, istituzionalmente sottratta al meccanismo del controllo democratico e rappresentativo.
La questione incide sul rapporto tra magistratura e politica e diviene assai delicata in un paese come l’Italia, dove l’assetto del rapporto tra magistratura e democrazia è estraneo al modello liberaldemocratico classico sia di civil law che di common law, se si considera il reclutamento di tipo burocratico del magistrato, l’autogoverno dell’ordine e l’automatismo delle carriere, la sottrazione a qualsivoglia controllo democratico e l’unicità delle carriere requirente e giudicante. Non resta che l’argine del diritto di critica politica da parte dell’opinione pubblica e dunque l’ampliamento dell’esimente che la Corte di Cassazione, facendo prevalere logiche di tutela corporativa, ha invece cancellato.
Ma vi è di più.
La ricostruzione della storia contemporanea è quasi attraversata, come ha ricordato Roberto Racinaro nel suo Colonne infami, dalla tesi del doppio Stato “secondo cui, nel nostro paese, lo Stato apparente, legale e democratico, sarebbe solo il lato esterno di uno Stato che si fonda sui compromessi e sulle illegalità”. Il giacobinismo di alcuni protagonisti della inchieste contro interi pezzi di classe dirigente di questo paese, da Gherardo Colombo a Giancarlo Caselli, è fondato su quella tesi, a mio avviso sbagliata e pericolosa, ed è alla base di innumerevoli prese di posizione diffuse senza risparmio attraverso plurimi organi di informazione: si può onestamente escludere un vizio di politicizzazione nelle loro affermazioni, anche quando esposte sotto forma di atti processuali? E’ davvero possibile ravvisare un intento diffamatorio nel criticare di politicità inchieste che hanno colpito al cuore il funzionamento dello Stato e i suoi più alti esponenti, come nella tesi accusatoria – sconfitta nel processo – del coinvolgimento del senatore Andreotti nell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra?
Le lapidarie parole della Cassazione suonano anche sinistre per un diverso motivo, che costituisce il risvolto “filosofico” (si parva licet) della vicenda: l’antipolitica, il male oscuro che soffoca la nostra democrazia nei tempi recenti. L’equivalenza dei concetti di partiticità, politicità e ideologicità. Così, la parzialità politica diviene interesse personale e quindi immorale e illegale se a darvi luogo è il giudice, chiamato in verità a una serie innumerevole di decisioni politiche, ma non per questo partitiche e ancor meno ideologiche.
Si chiude il cerchio, insomma, a conferma dell’eccentricità del modello italiano. Il giudice fa politica, interpreta la legge concorrendo a crearla, ma se lo si dice o scrive a proposito di una particolare inchiesta o decisione si può finire nelle patrie galere, esattamente come se si desse di ladro o delinquente.
A sinistra il garantismo è morto. Ma qui si intacca il cuore del sistema nella direzione opposta a quella necessaria, specie in tema di espressione del diritto di critica, e a dissentire si ode soltanto qualche flebile voce.
Ditemi ancora che sono diventato di destra, come mi sento dire ininterrottamente da quando mi appassiono a questi temi. O finirò per crederci, o – come i matti – penserò che di destra sono quasi tutti gli altri.