Non deve essere facile chiamarsi Benjamin Becker (nessuna parentela) e fare il tennista tedesco una domenica di settembre a New York. Svegliarsi 112 del mondo e avere la possibilità, prima di pranzo, di passare alla storia – oltre che agli ottavi di finale degli US Open – come l’ultimo avversario di Andre Agassi. Essere, insomma, quello che deve perdere. Perdere a dispetto di qualunque ragionevole considerazione su età, forma fisica e meriti effettivi. E pure a dispetto del primo set, vinto 7-5. Perdere e basta, per lasciare che Agassi giochi ancora. Poveraccio, questo Becker minore: dalla sua parte avrà giusto i parenti più stretti. Non è questione di tifare contro, è il legittimo tributo che si deve alle rockstar. Perché Andre Agassi è come i leggings: una cosa che mai avremmo immaginato sarebbe restata di quegli anni Ottanta. I leggings – preciso a uso dei miei piccoli lettori – vent’anni fa si chiamavano pantacollant e usavano molto sotto maxipull dai colori elettrici. Così conciate guardavamo in televisione l’inizio delle fantastiche avventure di un capellone intemperante. Era il 1986 e – se non fossimo cresciute anche noi, e maturate con la medesima eleganza – così conciate potremmo assistere adesso all’ultima partita di Andre Agassi. Del resto, di questi tempi si porta molto il vintage a Flushing Meadows. Persino James Blake s’è presentato in campo venerdì con un indosso un completino rosa fluo, in segno di omaggio a quel signore in età che è arrivato a giocare il terzo turno dopo aver vinto contro Baghdatis una partita strappacuore. Figlio di un armeno a Las Vegas che aveva deciso di realizzarsi nella vita come Padre di Campione di Tennis, narra la leggenda che fin dalla culla Andre fosse sottoposto a esercizi per allenare la coordinazione braccio-occhio e si mostrasse in ciò particolarmente versato. Le statistiche ATP raccontano, invece, di una carriera avvincente e dissennata, ivi compreso il rifiuto di giocare a Wimbledon fino al 1990 perché tutto quel bianco – dice – non gli donava affatto. Alle malelingue che insinuavano fosse per insicurezza, il nostro eroe rispondeva, due anni dopo, vincendo sui prati inglesi il suo primo torneo di Grande Slam. Chissà se se lo ricorda Benjamin Becker dalle qualificazioni, mentre perde il secondo set al tie-break, che certi campioni non muoiono mai. E Agassi è uomo di tempra: ha combattutto per dieci anni contro Pete Sampras, la scimmia dal formidabile genio. E siccome la differenza tra una scimmia e una rockstar è nei dettagli, indovinate chi, poco più che ventenne, si intratteneva con Barbra Streisand e chi invece avrebbe finito per sposare a fine corsa una ex Miss Teen Usa. Certo, arricceranno il naso i puristi noiosi: Sampras ha vinto di più. Come se contasse qualche cosa. Agassi ha tutti gli Slam, una medaglia olimpica e una via di Las Vegas che si chiama come lui. È sopravvissuto a una dieta a base di hamburger e persino – ma con fatica – al matrimonio con Brooke Shields. E poi ha il cuore tenero. Aiuta i bambini poveri anche se non sanno giocare a tennis – nel 2001 ha fondato la Andre Agassi College Preparatory Academy – e si commuove già solo quando Benjamin Becker (chi?) fa per servire il primo dei tre match point che gli capitano in sorte, nel quarto set. A guardarlo dalla tribuna c’è Steffi Graf, campionessa vintage, attuale sposa e madre, coi capelli da Charlie’s Angel e l’occhio appena umido. Perché una rockstar, quando decide di sistemarsi, sceglie la ragazza più popolare e con le gambe più belle del circuito. L’ex-scarmigliato adesso è immobile a fondo campo, aspetta che quello gli serva contro l’ultimo match point. In vent’anni si è distillato all’essenziale: testa rasata, maglietta candida, fisico asciutto. New York, intorno, è in piedi. E quello infine serve, lo screanzato. Ma lui non gli risponde neanche. Gioco, partita, carriera.