La politica italiana è l’unico sport al mondo in cui ai giocatori è permesso indossare la maglia degli avversari, per potersela poi sfilare al momento opportuno e colpirli a tradimento, gelando l’intero stadio. Infatti, la politica italiana è anche l’unico sport al mondo in cui le tifoserie non sono in grado di distinguere i giocatori della propria squadra dagli avversari.
Il surreale dibattito che da anni si svolge sui giornali a proposito di banche, politica e finanza è lo specchio fedele di questa singolare realtà. Basti, come ultimo esempio, lo scambio di vedute tra il vicedirettore del Corriere della sera Dario Di Vico e il segretario dei Ds Piero Fassino, ospitato in questi giorni dal quotidiano di via Solferino. Ennesima dimostrazione della trappola in cui la sinistra è caduta. Troppe volte, infatti, la sinistra italiana ha lasciato ad altri la facoltà di dettare gli schemi di gioco ai suoi dirigenti e persino i cori da intonare ai tifosi, ora aizzandoli contro l’allenatore o la squadra, ora sostenendoli entrambi. Si veda anche, per un’esauriente panoramica sul fenomeno, l’illuminante dibattito sulla morte del socialismo ospitato sulle pagine di Repubblica.
Alla luce dell’aggregazione tra Intesa e Sanpaolo tutti i principali commentatori riscoprono oggi il valore dell’italianità delle banche, spiegano che per crescere all’estero prima bisogna rafforzarsi all’interno, domandano come possano espandersi le piccole e medie imprese senza una grande banca italiana che all’estero le accompagni e le assista, sottolineano il ruolo prezioso giocato dalle fondazioni – che non piaceranno ai professori di Harvard amanti del mercato perfetto e fanatici della separazione tra economia e politica, ma pazienza – dicono insomma tutto l’esatto contrario di quanto essi stessi, e con rara foga, avevano sostenuto nella maledetta estate delle scalate a Bnl e Antonveneta. E già che ci sono, con Di Vico, irridono gli inetti diessini che ora si lamenterebbero di non contare nulla negli equilibri della finanza italiana, incapaci persino di mettere d’accordo Unipol e Monte dei Paschi.
Questo al momento ci sembra essere lo stato dei fatti. E siccome l’unico modo di uscire dall’inferno è parlare con il Diavolo, crediamo che per la sinistra italiana sia venuto il momento di parlare con Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia ha certo innumerevoli difetti, ma l’anomalia che egli rappresenta è anche la migliore garanzia della sua autonomia. Il che è poi anche l’unico vero motivo di un certo antiberlusconismo borghese, che nulla ha a che vedere con la nobile battaglia per una seria disciplina del conflitto di interessi, che se venisse rigorosamente stabilita e applicata troverebbe avversari assai più temibili di un Emilio Fede o di un Fedele Confalonieri.
Per uscire dalla trappola, occorre dunque parlare con Silvio Berlusconi. L’idea di stabilizzare la maggioranza semplicemente attraverso il dialogo con l’Udc di Casini è una scorciatoia pericolosa. E potrebbe rivelarsi un errore, lo stesso errore commesso già tante volte in passato, nella presunzione di poter scegliere i propri avversari e ridisegnare a proprio agio i reali rapporti di forza. A meno che la scelta di puntare su Casini, da parte del centrosinistra, non sia invece il frutto di una più generale revisione della propria strategia, quella che puntava al consolidamento del bipolarismo attraverso la costruzione del partito democratico, con tutti i corollari necessari in materia di riforme istituzionali ed elettorali.
Vogliamo credere che così non sia, dunque non considereremo nemmeno questa seconda ipotesi. L’errore appare invece più che comprensibile, data l’esigenza oggettiva di allargare la risicata maggioranza di cui l’Unione dispone al Senato, ma non per questo sarebbe una scelta meno rischiosa. In questo momento, infatti, i soggetti interessati alla difesa e al rafforzamento del bipolarismo sono due, non duecento. E sono i Ds e Forza Italia. E’ bene dunque che si parlino.
Parlare con Berlusconi è innanzi tutto un atto di realismo politico. Anche se si può già mettere in conto una reazione veemente a sinistra, che sarà prontamente scatenata dai sobillatori abituali della sua base e dei suoi cosiddetti intellettuali di riferimento. Ma gli anni che abbiamo alle spalle e soprattutto l’esito delle ultime elezioni, in cui la capacità di tenuta del Cavaliere ha sorpreso tutti – e noi per primi – dimostrano la forza e il radicamento della sua leadership. Non la si farà scomparire semplicemente guardando altrove. Guardare altrove significherebbe semplicemente non vedere una consistente parte dell’Italia.
Occorre invece elaborare il lutto per la mancata scomparsa della “grande anomalia”, cominciando con il dare degna sepoltura a tutte le analisi che ne avevano pronosticato la dipartita. Noi per primi, pertanto, dobbiamo aggiornare le categorie con cui abbiamo giudicato l’esperienza politica di Berlusconi e del suo governo. Il berlusconismo affonda le radici in un blocco sociale che al Nord, alle ultime elezioni, è stato appena scalfito: un dato costante della politica italiana sin dalla fine della Prima Repubblica.
Parlare con Berlusconi, consolidare il bipolarismo, costruire il partito democratico sono i tre necessari passaggi di un’unica strategia. Le forze che vorrebbero cancellare per decreto l’irriducibile anomalia berlusconiana (non certo per ragioni ideali, giova ripetere, ma per la sua relativa autonomia) sono infatti le stesse che vorrebbero trasformare i Ds in una specie di ong per cittadini consumatori. Di qui la visione di una politica disossata e di una sinistra esangue che va per la maggiore sui grandi giornali. Una visione il cui retroterra storico-politico è degnamente rappresentato da una lettura del passato quanto meno eclettica, che va da Roosevelt a Kennedy, mentre espunge dalla storia del mondo l’esperienza del comunismo. E riduce il movimento operaio a un’associazione di suffragetti in lotta per i diritti civili e per l’affermazione di valori umanitari, a metà strada tra la società filantropica e l’associazione di volontariato.
Il partito democratico non è questo. E sbaglia chi, a destra come a sinistra, si lascia confondere dalle parole, perdendo di vista la sostanza. Né il definitivo ritorno al proporzionale, né il ripiegamento identitario negli attuali partiti, debolissimi anche sotto il profilo politico-culturale, rappresentano la strada verso la riaffermazione della politica. Tutto il contrario.