I bombardieri lanciano, nessun richiamo / Minuti separano dalla caduta del missile / Osservate il vostro ultimo cielo / Domandandovi se resta tempo per piangere”. Si tratti solo di classiche liriche metal o di riferimento ad avvenimenti recenti, con “A Matter Of Life And Death”, gli Iron Maiden incidono il loro opus numero quattordici – più nove live album – in circa ventott’anni di carriera.
La Vergine di Ferro spalanca le sue braccia, infatti, nel 1979, in tempo per iscriversi alla New Wave Of British Heavy Metal e per diventare punto di riferimento stilistico/iconografico per le legioni metalliche a venire; discepoli di Black Sabbath, Led Zeppelin e Deep Purple, coevi di Judas Priest e dei meno fortunati AngelWitch (ai quali, ironia, i Maiden fecero da opening act), dopo innumerevoli cambi di formazione esordiscono con il demo “The Soundhouse Tapes”, cinquemila copie vendute e due titoli come “Prowler” e “Iron Maiden”. La line-up include il fondatore e compositore principale Steve Harris al basso, Paul Di’Anno alla voce, Dave Murray alla chitarra e Doug Sampson alla batteria; è storia arcinota il cambio della guardia tra Di’Anno e Bruce Dickinson, che conferirà il suo peculiare timbro vocale alla band; così come gli altri avvicendamenti all’interno della famiglia, fino alla reunion generale del ‘99 che porta all’attuale, estesa, line-up: Harris, Dickinson, Murray, i chitarristi Adrian Smith-Janick Gers e il drummer Nicko McBrain. Un turnover che produrrà, nel frattempo, la raffica dei primi cinque classici “Iron Maiden” (’80), “Killers” (’81), “The Number Of The Beast” (’82, la title-track li farà bollare come “satanisti”), “Piece Of Mind” (’83) e “Powerslave” (‘84); una cavalcata selvaggia che fa epoca, conclusa degnamente dal doppio “Live After Death”, aperto in modo consono dal proclama bellico di Winston Churcill: “We shall never surrender”.
Basta e avanza per proiettare gli IM nel firmamento delle star; fatalmente, tecnica indiscussa e gigantismo spettacolare dovranno supplire al progressivo calo d’ispirazione degli anni ’90 (gli ’80 si chiudono in linea con l’inizio, grazie a “Somewhere In Time” e “Seventh Son Of A Seventh Son”, settimo lavoro e concept-album ispirato a “Seventh Son” di Orson Scott Card). Il nuovo millennio li vede risalire la china, favoriti dalla crescente scena progressive-metal: “Brave New World” (’00) e “Dance Of Death” (’03) accentuano il tono dark delle canzoni, mentre nei testi cresce il peso della critica sociale. Meno irruenti e più raffinati, sempre in possesso di un timbro unico nel metal, anticipano l’autunno 2006 con questa nuova uscita che conferma la tendenza in atto: lunghe suite, riff squadrati, ripetuti incisi chitarristici, una sensazione non forzata di maggior impegno e lavoro attorno a ciascun brano. La splendida “Brighter Than A Thousand Suns” (alla quale appartiene la citazione iniziale) spinge in alto la valutazione, aiutata dalle robuste “Different World”, “These Colours Don’t Run”, “For The Greater Good Of God” (il cui tema è l’ipocrita strumentalizzazione della fede, non la fede in sè: ma l’equivoco scatterà lo stesso) e “The Reincarnation Of Benjamin Breeg” (che ha scatenato la caccia in rete all’identità del soggetto). Meno brillanti e un filo ripetitive “Out Of The Shadows”, ballad che farà comunque la sua parte dal vivo; “The Pilgrim” e “Lord Of Light” (abbinano nella stessa canzone Lucifero e il “Signore della Luce”: non sono satanisti ma nemmeno latinisti). La conclusiva “The Legacy”, troppo lunga e pretenziosa, non cambia la sostanziale qualità del lavoro e il ghigno cadaverico di Eddie (la mascotte-simbolo della band immortalata con costanza su ogni copertina) può sciogliersi in un sorriso, mentre si preparano i camion per il tour: c’è ancora vita, dopo la morte.