A cinque anni da quell’incredibile ed epocale 11 settembre 2001, tutti noi abbiamo visto la nostra stessa vita cambiare e gli spazi pubblici restringersi o addirittura chiudersi. Ciò ha significato un indebolirsi della politica. Il luogo in cui il processo è stato più evidente è quel Medio Oriente da dove tutto partì molti anni prima, con il primo jihad verso l’Afghanistan. Lo è non per una sorta di retribuzione divina, bensì perché vi è stato più concretamente l’errore dell’intervento Usa in Iraq che ha accresciuto le già grandi difficoltà della politica nella regione. Si è trattato infatti di un evento che ha profondamente cambiato il Medio Oriente. Ma non come si aspettava l’Amministrazione Usa.
Immaginando la politica come una relazione tra l’individuo e lo Stato in classici schemi liberaldemocratici, l’Amministrazione Bush non ha capito che lì la gente vede invece la politica come un sistema di equilibri di potere tra comunità. Semplificando, si potrebbe dire in modo tribale. In Iraq la caduta di Saddam Hussein ha dunque significato non l’opportunità di avere maggiore libertà individuale – buona cura per il terrorismo globale – bensì quella di aggiustare in senso diverso l’equilibrio tra le varie comunità. Così, giocando avventurosamente la carta sciita in Iraq – consegnando cioè il potere a quegli sciiti i quali, pur costituendo la maggioranza della popolazione, ne erano sempre stati esclusi – si è dato inavvertitamente forma a una forte soggettività politica sciita in tutta la regione che ha squilibrato il sistema: non solo perché l’Iraq passava in loro mano, ma anche perché la sua liberazione ha generato nuovi legami politici, culturali ed economici tra le comunità sciite di tutta la regione; dal 2003 centinaia di migliaia di pellegrini provenienti da tutto il mondo hanno visitato Najaf e Karbala, creando una rete transnazionale di seminari, moschee e Imam che lega l’Iraq ad ogni comunità sciita, incluse quelle iraniane.
Tutto ciò sta distruggendo vecchi equilibri e creandone di nuovi e imprevisti. Che stanno riallineando il Medio Oriente su nuove e diverse linee di faglia: prima diviso tra arabi e non arabi, dopo l’Iraq esso tende invece a dividersi tra sciiti e non sciiti, e poi come in ogni fase costituente anche tra radicali e moderati. E la potenza regolatrice degli Usa conosce un declino più celere che in altre regioni. La guerra libanese appena terminata è il prodotto di questo vuoto politico. E una guerra che si produce per questo motivo non è detto che sia un “gioco a somma zero”, dove se uno perde l’altro vince. E difatti questa non lo è stata: hanno perso sia Israele sia Hizballah.
La comune percezione di una sconfitta strategica israeliana e di una vittoria politica di Hizballah prescinde dal merito dello scontro militare e risiede, per i primi, nella pubblica conferma che in una regione piccola e poco profonda la deterrenza militare finisce con l’inizio dell’epoca dei missili e della loro diffusione, e per i secondi nel più generale spostamento dell’equilibrio di potenza a favore dell’asse sciita. Il risucchio del vuoto prodottosi con l’arretrare della potenza regolatrice Usa tende inoltre a indebolire chi era in posizione di preminenza – le sunnite Giordania, Egitto, Arabia Saudita – e a dare nuove possibilità di inserimento a chi era prima escluso: oltre all’Iran, per esempio la Russia.
Il 2006 – grazie anche alla forza venuta dall’alto prezzo del petrolio – è stato l’anno del Medio Oriente per la leadership russa. Prima la controversa visita a Mosca di una delegazione di Hamas, poi il viaggio di Putin in Algeria. Infine le deboli smentite sulla modernizzazione dei porti militari siriani di Tartus e Latakia, forse frutto della visita di Bashar Al-Asad a Mosca nel 2005. Mentre i servizi segreti federali russi rifiutano di inserire Hizballah nella lista delle organizzazioni terroristiche perché “non opera su suolo russo”.
Cinque anni dopo, dunque, se possibile gli Usa sono ancora più disperati e meno sicuri di prima, mentre il Medio Oriente viene risucchiato da un vuoto politico che può distruggere tutte le residue istituzioni statuali e consegnare partita vinta all’islam politico radicale a guida sciita, il che renderebbe tale decisiva regione un cuneo conficcato negli ingranaggi del mondo. Da qui occorre ripartire, cinque anni dopo e migliaia di vite di soldati e civili in meno.
Occorre far tornare la politica e invertire la rotta. Riempire il vuoto, il prima possibile. Ma si intravede qualche possibilità e spiraglio. Gli Usa hanno già cominciato. Stanno accantonando il complesso messianico (che spesso diventa complesso di Sansone) e cercano di irrobustire l’istituzione statuale nella regione, invertendo la disastrosa concezione dietro la guerra all’Iraq: il problema non sono più gli “stati canaglia” ma diventano di nuovo gli “stati falliti”, e per farlo è necessario abbandonare l’unilateralismo e dispiegare al suo posto il multilateralismo. Perché c’è bisogno di molti, se non di tutti.
Anche Israele sta facendo lo stesso: accettando per la prima volta una forza multinazionale ai suoi confini, e dunque segnalando la necessità di una politica multilaterale. Adesso è atteso alla prova più difficile: applicare questo concetto verso i palestinesi. E’ importante: quando infatti l’estate scorsa Israele si ritirò unilateralmente da Gaza, Hamas riuscì a sostenere che i suoi combattenti avevano scacciato Israele nello stesso modo in cui Hizballah aveva scacciato Israele nel 2000. In entrambi i casi, dunque il ritiro di Israele fu percepito come un segnale di debolezza e non, come era, un gesto finalizzato alla convivenza. E a rafforzarsi furono gli islamisti radicali, non i moderati.
Il multilateralismo è necessario anche perché occorre pragmatismo, rivoluzionando la concezione stessa del portare la pace: occorre cercare una hudna a tutto campo, cioè inizialmente accordi di armistizio, e non accordi finali. Per questo è importante la proposta di “esportare” il nuovo modello Unifil anche a Gaza, e magari altrove: nel nostro piccolo paese di media potenza abbiamo indovinato la chiave tutta politica adatta a inserirsi creativamente in una fase costituente quale il Medio Oriente sta vivendo dopo l’intervento in Iraq, e abbiamo saputo farci apprezzare da tutto il mondo, Israele e Usa in testa. E chi, questa estate, ha voluto strumentalizzare la visita di D’Alema a Beirut prescindendo dal contesto e per soli scopi di piccola politica interna, si è poi trovato scoperto dagli apprezzamenti di Olmert per l’azione italiana, che quelle piccole polemiche provinciali giustamente ignora.
Occorre dunque insistere su questa strada politica: perché ciò che ha fatto fallire Oslo non era la metodologia in sé quanto la scarsità di risorse politiche a sua disposizione (pochi attori per troppo poco tempo). C’è invece bisogno che l’accordo sia comprensivo non nel tempo (che può essere progressivo) bensì nello spazio (riguardare tutti allo stesso momento). Del resto Oslo avrà pure fallito, ma gli anni Novanta sono stati l’unica decade da quando esiste lo stato d’Israele a non vedere una grande guerra arabo-israeliana. Solo così sarà vinta la partita con l’islam politico radicale, e verranno bonificati – cinque anni dopo l’11 settembre – quei “giacimenti d’odio” che ancora costituiscono una miniera inesauribile di uomini e mezzi per il terrorismo globale che spregia come primo nemico la democrazia, il benessere e le riforme possibili di una società aperta.