Oggi abbiamo molte cose che i nostri padri e i nostri nonni non avevano, ma c’è una cosa che loro avevano e che noi invece non abbiamo: non disponiamo più di una teoria del cambiamento storico. Non è un problema di poco conto, visto che la filosofia è (stata) essenzialmente una teoria del genere. Per Platone, e per l’Occidente intero, il compito della filosofia è infatti anzitutto quello di “salvare i fenomeni”. E poiché i fenomeni da salvare assommano al fatto fondamentale che le cose cambiano, salvare i fenomeni significa appunto dare ragione del cambiamento. Quando, in età moderna, ci si convince che il cambiamento decisivo avviene grazie all’azione umana, il luogo elettivo del cambiamento di cui bisogna dare conto diviene senz’altro la storia. I filosofi la mettono anzi così: una coscienza (storica) può sorgere solo quando si riconosce all’azione umana l’immane potenza di modificare, anzi di negare il dato naturale, e di costruire così un mondo umano radicalmente distinto dall’ambiente naturale in cui vivono, perfettamente ignari, gli altri animali. Per un lungo tratto di strada, essere uomo ed essere individui storici ha potuto perciò significare la stessa cosa. Ma a un certo momento – che è ieri – è sembrato che non ci fosse più molta strada da fare (per andare dove, poi?), che la storia forse non si stesse arrestando, ma stesse finendo con l’impantanarsi: da quel momento non siamo più stati in grado di riconoscere un senso storico in quel che accade – poiché c’è storia quando non ci si limita a registrare quel che succede, ma se ne riesce a dare ragione. È questa ragione che consente di selezionare gli eventi significativi che “fanno” la storia: quando s’indebolisce, si sta, come diceva Edward H. Carr, come clienti in pescheria, come se cioè i fatti storici se ne stessero sul bancone, già belli e pescati, in attesa di servircene per il nostro piacere. Questa ragione i nostri padri e i nostri nonni l’avevano, o perlomeno contavano di averla, e noi invece non l’abbiamo più.
L’indebolimento del senso storico è dunque un fatto: altrimenti non si spiegherebbe non solo perché Fukuyama si sia appropriato del concetto hegelo-kojèviano di fine della storia (il che, dopo tutto, non è il suo maggior peccato) ma anche perché così tanti giornalisti possano spacciarsi per – e così tante persone credere che essi siano – storici autorevoli; e perché poi la pubblicità riesca con tanta facilità a procurare ai libri di Vespa l’aura della ricerca storica, nonostante il noto giornalista ne sforni uno all’anno (non avendo scoperto ancora le virtù del semestre), e perché da ultimo Gianni Riotta, in un editoriale del Corriere della Sera di qualche giorno fa, misuri la portata di quel che è avvenuto l’11 settembre con il bell’ausilio della psicologia e della caratteriologia: l’11 settembre ha cambiato “lo spirito e l’indole dei nostri tempi […]: siamo diventati cauti, circospetti, più cinici ed egoisti, meno tolleranti”. Foreign policy ha scritto che dopo tutto non è cambiato granché, e Riotta, che la sa lunga, crede di avvertire lo spirito del tempo, guardando non agli indici economici o alle relazioni internazionali, alle guerre in corso o a quelle prossime venture, ma allo stato d’animo delle persone. Rudolf Haym rimproverava a Hegel di avere nella Fenomenologia dello Spirito confuso e mescolato insieme psicologia e storia: è perché non aveva letto Riotta. Che tra riluttanze e ingenuità, crisi di identità ed esami di coscienza, sembra fare della storia un affare di sentimenti. Il confine tra la politica estera e la posta del cuore sfuma, e in queste condizioni è difficile comprendere come facciano al Corriere a smistare la corrispondenza di Sergio Romano e quella di Isabella Bossi Fedrigotti.
Ma la filosofia non sta messa molto meglio. All’indomani del crollo delle Twin Towers, Jean Baudrillard scriveva che l’11 settembre non sarebbe stato l’11 settembre, “la prova eclatante della fragilità della superpotenza mondiale”, se i terroristi di torri ne avessero colpite solo una, se le due torri non fossero cadute entrambe, e soprattutto se ad essere colpite e a crollare non fossero state le torri gemelle, ma uno qualunque degli altri grattacieli che formano la spettacolare skyline della città. Cosa vogliono dire infatti le torri gemelle, cosa vuol dire la gemellarità, se non che l’una torre è la mera replica dell’altra, e si specchia nell’altra così completamente da non avere più una facciata rivolta verso il mondo? Non è questo il simbolo perfetto della cecità e della solitudine dell’Occidente, che “raccogliendo su di sé tutte le carte, costringe l’Altro a cambiare gioco e a cambiare le regole del gioco”? La maiuscola di cui l’Altro è gratificato da Baudrillard è il segno che questa volta la storia si mescola con la teologia, e non tanto perché l’Occidente è addirittura “in posizione di Dio” – non per altro, però, che per suicidarsi, essendo noto che se le Torri sono state fisicamente distrutte dagli attacchi aerei, sono invece dal punto di vista simbolico crollate da sé –, quanto perché l’11 settembre ha in queste pagine i caratteri dell’evento puro, dell’evento unico, dell’evento assoluto, e – perché no? – dell’evento terroristico: non già perché perpetrato da terroristi, ma perché “ogni evento degno di questo nome è terroristico”.
Ora, lungi da noi il sospetto che Baudrillard e Riotta non colgano nel segno – l’uno grazie a un brivido teologico, l’altro con la pappa sentimentale. Quel che però vale forse la pena di domandarsi è se non si debba un po’ rimpiangere la brutta fine che ha fatto il senso storico. Non per altro, ma per chiedere almeno al brillante pensatore francese di provarsi in un tono minore, e al brillate editorialista nostrano di trovare un respiro appena maggiore.