Michael Schumacher era molto emozionato domenica, mentre annunciava il suo ritiro alla conferenza stampa del Gran premio d’Italia. O almeno era molto emozionato quanto può esserlo un pilota tedesco introverso, con la scucchia, dannatamente bravo nel suo mestiere e consapevole di esserlo. Niente di eclatante, quindi. Una leggera incrinatura nella voce, qualche inciampo nelle parole e gli occhi leggermente lucidi sul viso arrossato, forse a causa dello sforzo o forse no.
A guardare i numeri la distanza tra Schumacher e ogni altro pilota, in attività e non, è abissale. Sette campionati del mondo (cinque consecutivi con la Ferrari, dal 2000 al 2004), novanta vittorie in Formula uno, centocinquantatre volte sul podio (un po’ meno di due terzi delle gare disputate), sessantotto pole position e settantacinque giri veloci.
A Schumi va anche riconosciuto un certo senso per lo spettacolo. Domenica, per dire, ha annunciato il ritiro dopo una gara vinta e, grazie anche alla provvidenziale rottura del motore sulla Renault di Alonso, avendo praticamente completato una rimonta che potrebbe portarlo, di qui a qualche settimana, a chiudere la carriera mettendo il sigillo sull’ottavo titolo. Che altro può fare un pilota per entrare nel cuore dei tifosi? Quelli della Ferrari, in particolare, dovrebbero fargli un monumento equestre. Il titolo del 2000 ha interrotto un’attesa ventennale, e aperto un ciclo trionfale che potrebbe essere non ancora terminato, dopo la parentesi dello scorso anno. Eppure Schumi non suscita grandi passioni. Lo stato d’animo di molti appassionati in questo momento rasenta l’ingratitudine, e varia tra “sì certo, è il migliore, però che noioso” e “speriamo che si ritiri davvero, non lo sopporto più”. Freddo, robotico. Questa è l’accusa che più spesso è stata rivolta al pilota di Kerpen, e se è vero che la geografia e la fisiognomica gli sono contro, in pista Schumi ha spesso manifestato il difetto contrario. Basta ricordare la sportellata a Villeneuve che gli costò il titolo del ’97, o la rissa ai box McLaren dopo l’incidente con Coulthard sotto la pioggia al Gran premio del Belgio del ’98. La saltuaria impulsività, invece di fare di lui uno di quei piloti irruenti che tanto piacciono al pubblico, nel suo caso è diventata un difetto supplementare: è un robot, e in più un robot che funziona male.
In realtà non gli è stato mai davvero perdonato il fatto di essere il migliore e di ritenersi tale, facendo pesare questo aspetto in seno alla squadra. Per non parlare delle sue croniche difficoltà con l’italiano. Ma c’è dell’altro. L’essenza del tifo sportivo è negli universi paralleli, nei confronti impossibili. E’ stato più forte Fangio o Senna? Agostini o Valentino Rossi? E Villeneuve? Quanti sportivi ancora fremono al nome di Gilles Villeneuve, che di corse ne vinse appena sei in carriera? – già ma se non fosse morto, in quel maledetto ottantadue, avrebbe vinto il mondiale – Ecco capite ora? Le vittorie di Schumacher sono troppo reali, appartengono a un mondo prosaico e materiale, come i suoi compensi e la sua abilità contrattuale; e la sconvolgente pretesa del pilota tedesco di potere invecchiare in pace e raccontarle ai nipotini, è un oltraggio al mito. E al mito può essere reso solo un deferente omaggio.
L’unica volta che Schumacher si emozionò davvero, come facciamo noialtri umani, fu a Monza. Era l’anno in cui vinse poi il suo primo titolo con la Ferrari, e con il Gran premio d’Italia raggiunse le quarantuno vittorie in Formula uno di Ayrton Senna. Gli chiesero come si sentiva a eguagliare una leggenda, e lui scoppiò in lacrime. Forse perché sapeva che la gara contro il mito era persa comunque. Lui poteva al massimo vincere più corse, e restare vivo, l’arrogante.