Un tempo, quando le parole avevano ancora un senso, la sinistra si batteva per una più giusta redistribuzione del reddito, mentre i liberali obiettavano che per avere qualcosa da redistribuire occorreva creare maggiore ricchezza, senza preoccuparsi d’altro. Oggi, invece, a chi in Italia vorrebbe porre rimedio alle evidenti distorsioni della spesa pubblica, la sinistra radicale obietta che per correggerne le iniquità non occorre distribuirne diversamente i benefici, ma semplicemente aumentarne le risorse. Se un’automobile è diretta contro un muro, secondo un simile modo di ragionare, la soluzione più saggia sarebbe dunque quella di accelerare.
In questi giorni Piero Fassino ha preso una posizione coraggiosa sulla necessità di riformare la struttura della spesa pubblica, a partire dalle pensioni. E’ stato appoggiato in pratica dal solo Massimo D’Alema. Ed entrambi sono stati attaccati dalla sinistra radicale. Nel governo si è così aperto un confronto duro e dall’esito incerto, che tuttavia ha se non altro il pregio della chiarezza. Al calore dello scontro, infatti, si è subito squagliato l’audace riformismo rutelliano.
A questi problemi, qualche mese fa, Geminello Alvi ha dedicato un breve saggio: Una repubblica fondata sulle rendite. Un libro che si potrebbe considerare una lunga requisitoria contro la sinistra e i sindacati. Eppure, nonostante tutti i giudizi sprezzanti elargiti dall’autore al loro indirizzo, crediamo che gli esponenti più avvertiti della sinistra e del movimento sindacale farebbero bene a leggerlo. In primo luogo perché è sempre assai più utile ascoltare le critiche spietate che provengono dalle persone competenti, espressione di un punto di vista dichiaratamente diverso sull’interesse generale del paese, piuttosto che le osservazioni melliflue o le lodi interessate degli incompetenti, espressione di interessi particolari e non dichiarati. In secondo luogo perché il tema del saggio – come si distribuisce la ricchezza in Italia – dovrebbe stare molto a cuore ai dirigenti della sinistra. Se non di questo, di cos’altro dovrebbero occuparsi?
E’ dunque venuto il momento di interrogarsi su quale capacità la sinistra italiana abbia avuto, fino a oggi, non solo di redistribuire le risorse, ma più in generale di ripartire le opportunità fra i diversi segmenti della società, di creare canali di mobilità, di rimescolare le carte in campo economico e sociale, in breve di realizzare (o quanto meno di porre le premesse per) una reale redistribuzione del potere. Ma queste, anche se non le abbiamo messe tra virgolette, non sono parole nostre. E non sono tratte nemmeno dal libro di Alvi, ma da una sintesi degli interventi di Marcello Messori e Nicola Rossi distribuita a un seminario di ben dieci anni fa, organizzato dai maggiori centri studi dell’allora Pds, a Frattocchie.
Già nel 1996, a sinistra, c’era dunque chi di questi problemi si occupava. “Nel corso dell’ultimo quarto di secolo – affermavano Messori e Rossi – i principali indicatori di disuguaglianza non mostrano evidenti tendenze né alla crescita né alla riduzione. Essi seguono con una certa puntualità l’andamento ciclico dell’economia… E lo stesso vale, si noti, per gli indicatori di marginalità sociale: nell’Italia del 1996 l’area della povertà abbraccia circa il 6 per cento dei nuclei familiari, esattamente come nell’Italia del 1973”. In altre parole, negli anni della costruzione del welfare state, la crescita della spesa sociale (e delle imposte necessarie per finanziarla, e del debito pubblico utilizzato per accrescerla ulteriormente) ha avuto sulle diseguaglianze della società italiana un’incidenza pari a zero. Un fatto che forse nella sinistra radicale e nel sindacato dovrebbe suscitare anche oggi qualche utile riflessione.
Simultaneamente a una simile dinamica della spesa sociale – proseguivano i due economisti – si espande il prelievo fiscale e contributivo a carico del lavoro dipendente, si estende lo stato sociale anche oltre i confini del lavoro dipendente e il volume di risorse trasferite, attraverso il canale del servizio del debito, ai ceti più abbienti. “I segmenti medi e medio-alti della popolazione non avanzano, come altrove, una diversa visione dello stato sociale ma se ne servono (con un certo cinismo) per conservare le proprie posizioni se non per migliorarle”.
A rileggere adesso simili analisi, svolte in un convegno del Pds all’indomani della vittoria elettorale del centrosinistra, quello che colpisce è innanzi tutto l’analogia con un libro pubblicato nell’aprile di quest’anno, da parte di un economista schierato su posizioni opposte come Geminello Alvi. A partire dalla denuncia di come strumenti di democrazia e di garanzia quali il fisco e il welfare, la scuola dell’obbligo e la legislazione del lavoro, fossero divenuti, nelle mani delle corporazioni, “strumenti potentissimi di conservazione degli equilibri sociali e delle connesse posizioni di rendita”. Né mancava, in quelle analisi, un passaggio sui problemi del controllo delle imprese e soprattutto delle banche, con particolare riguardo al ruolo delle fondazioni. Un assetto proprietario che annulla o almeno indebolisce la capacità di indirizzo da parte dei controllori e la necessaria separazione fra questi ultimi e i controllati. Con il risultato che “l’intrusione politica nella gestione delle banche, agevolata in passato dal controllo statale, viene sostituita dall’altrettanto deleteria autoreferenzialità di un management privo di controllo”. Così dunque si diceva a Frattocchie, alla presenza dell’allora segretario del Pds Massimo D’Alema, ai primi di novembre del 1996.
Come si suol dire, sembra ieri. E invece sono passati dieci anni, per metà dei quali il centrosinistra ha guidato il governo del paese, facendo anche molte cose egregie (checché ne dica Geminello Alvi). Eppure i problemi indicati allora, in gran parte, sembrano ancora lì. Ma forse la ragione non sta soltanto nei rapporti di forza a sinistra, nelle resistenze del sindacato o nella timidezza dei riformisti che, bene o male, per cinque anni sono stati alla guida del paese. Forse la ragione sta – anche – nella debolezza della politica, almeno dal ’92 in poi. E nei limiti oggettivi posti alla stessa azione di governo, nell’Italia di oggi, dalla distribuzione del potere reale.
Ma su questo, c’è almeno una pagina del libro di Alvi che andrebbe fotocopiata e distribuita nelle sezioni dei Ds e di Rifondazione comunista. Merita di essere citata quasi per intero: “E’ palese l’inadeguatezza di gran parte delle élite economiche, abili a incassare ogni forma di prebende, a manovrare l’opinione pubblica con le campagne di stampa dei giornali controllati, o a incrociare conflitti di interesse bancari senza più pudore. Va dimissionata: impedendole il possesso dei giornali, e ogni possibilità di influenzare i consigli di amministrazione delle banche. Questi petulanti, in intervista eterna, sono i poveri resti di un capitalismo senile e oppiaceo, che nutriva coi favori dello stato le sue interminabili famiglie. E dopo avere tanto mal lucrato e nuociuto, per cinquant’anni, ha pure lasciato all’Italia i suoi eredi da nutrire. A loro andrebbero tolti quegli indebiti nessi di potere con cui velano la loro inessenza”.
Non è dunque per ingraziarsi simili élite economiche o per correr dietro ai loro compiacenti editorialisti, che la sinistra riformista deve dare battaglia, ma per una ragione di giustizia. Perché uno stato sociale che non riduce le diseguaglianze e non intacca la povertà è peggio che inefficiente, è inutile. E perché una sinistra che non si ponga l’obiettivo della redistribuzione del potere è persino peggio che inutile. E’ dannosa.