Dalla Cina, venerdì scorso, alla richiesta di riferire in Parlamento sul caso Telecom, Romano Prodi ha replicato chiedendosi se “stiamo diventando matti”. E’ una buona domanda, che ci ha assillato per tutta la settimana.
Nel mondo, la settimana appena trascorsa è stata segnata dalla morte di Oriana Fallaci e dal discorso di Ratzinger a Ratisbona, con le violenze che nei paesi arabi ne sono seguite. Tanto da spingere il papa a rettificare in qualche modo le sue parole, incurante di chi – come Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera – proprio in nome della Fallaci esortava l’occidente cristiano a “non mollare”.
In Italia, la settimana appena trascorsa è stata segnata dal ritorno in Rai di Michele Santoro e dal ritorno al Regina Elena di Francesco Cognetti, nonché dal ritrovato accordo tra maggioranza e opposizione nel cda di viale Mazzini, che ha portato alla nomina di Gianni Riotta alla direzione del Tg1.
Nell’universo parallelo costituito dalla giustizia italiana, la stessa settimana è stata caratterizzata dall’intervista di Clementina Forleo al Magazine del Corriere della sera, in cui il gip di Milano si è detta convinta che “prima in Afghanistan, poi in Iraq e infine a Guantanamo” si sia perpetrato “un altro Olocausto”; nonché dalla corte di Cassazione che ha stabilito – a pochi giorni dalla sentenza in cui si è affermato che dare di politico a un magistrato costituisce diffamazione – che dare di Giuda a un politico non costituisce diffamazione.
Forse stiamo diventando matti, ma a noi pare che tutto questo abbia un significato. Probabilmente però il quadro non risulterebbe sufficientemente chiaro se dimenticassimo di citare il mondo dello spettacolo, con le polemiche suscitate dalla presenza di Luciano Moggi a “Quelli che il calcio”, dove gli sarebbe stato permesso di difendersi “senza contraddittorio” da mesi di accuse pesantissime. Cosa che in Rai configura evidentemente una gravissima culpa in vigilando a carico di Simona Ventura, la cui trasmissione ha subito infatti un drastico ridimensionamento.
Forse stiamo davvero diventando matti, ma con una battuta ci verrebbe da dire che la migliore conclusione possibile di tutto questo sarebbe stata la nomina di Luciano Moggi alla presidenza della Telecom. E magari di Galli della Loggia a papa. Invece la settimana si è conclusa con la comparsa di Marco Travaglio – ancora fresco della sua apparizione da Santoro – anche a “Quelli che il calcio”, sulla stessa poltrona riservata a Moggi la settimana prima, in una sorta di curiosissima par condicio della gogna. E la stessa settimana si è conclusa anche con un altro grande ritorno, quello del professor Guido Rossi alla presidenza della nostra principale compagnia telefonica.
Per la stampa questa settimana è stata però, senza dubbio, la settimana dello scontro tra Marco Tronchetti Provera e Romano Prodi, da cui sono usciti entrambi parecchio ammaccati. Anche se nessuno pare essersi ricordato di quando Carlo De Benedetti propose una quota del suo nuovo fondo di private equity a Silvio Berlusconi – salvo fare marcia indietro dinanzi all’insurrezione guidata dal fondatore di Repubblica, e debolmente contrastata dal direttore – che si diceva avesse come obiettivo proprio Telecom Italia. Un’ipotesi che ci è tornata alla mente sabato scorso, leggendo il durissimo editoriale di Ezio Mauro contro il presidente del Consiglio, ma soprattutto alla notizia della rabbia che l’articolo sembrerebbe avere suscitato tra i prodiani.
Forse stiamo diventando matti, ma la nostra impressione è che il governo sia caduto in una trappola. E questo ovviamente nulla toglie alla gravità – inaudita – del comunicato in cui Palazzo Chigi ha svelato intenzioni e retroscena delle trattative avviate da Tronchetti. La nostra impressione è che la consegna ai giornali del piano elaborato per Telecom da Angelo Rovati non sia stata solo una rappresaglia per le dichiarazioni ostili rilasciate da Prodi, ma il lucido tentativo di costringere la politica sulla difensiva. Riuscendo così, peraltro, a deviare l’attenzione dal merito della vicenda di Tronchetti, che fa il paio con quella del suo socio Benetton e dei tanti che in questi anni hanno goduto delle ricche tariffe pagate da tutti noi, o di aiuti e sovvenzioni di analoga provenienza.
A noi non piace la caccia alla volpe. A suo tempo non abbiamo esitato a difendere Antonio Fazio, che pure in passato aveva avuto responsabilità non irrilevanti nella tutela di un ordine economico oligarchico. E abbiamo difeso persino Fiorani, quando il gip di Milano Clementina Forleo autorizzava provvedimenti cautelari macroscopici, nel pieno corso di operazioni finanziarie miliardarie, con il sostegno della consueta campagna di stampa. E a maggior ragione abbiamo difeso e continuiamo a difendere Unipol, Giovanni Consorte e i Ds, che in quella campagna furono tirati dentro a viva forza, al solo scopo di ostacolare la legittima scalata della compagnia delle coop alla Bnl.
Ora che la polvere di quella battaglia si va depositando, però, forse non sarebbe male riprendere il filo del discorso. E forse è utile che lo facciamo noi, convinti sostenitori del partito democratico – tanto da schierarci con Prodi, contro Ds e Margherita, quando entrambi i partiti tentarono di frenare la lista unitaria – perché non è sulla rimozione del passato che si costruirà un futuro comune. Le parole consegnate da Arturo Parisi al Corriere della sera in quella indimenticabile estate del 2005 meritano di essere rilette oggi, e noi oggi qui le ripubblichiamo.
Ora però è Romano Prodi a trovarsi al centro degli attacchi. Qualcuno, come per esempio Lodovico Festa su Finanza e Mercati, si è spinto fino a paragonarlo a Vladimir Putin. Nessuno però si è domandato se in Russia la causa prima di quella deriva autoritaria non risieda innanzi tutto nei fasti dell’era Eltsin, al tempo delle grandi privatizzazioni. Perché va da sé che Prodi non è Putin, Rovati non è un ex agente del Kgb e la restaurazione dell’autorità dello Stato non può passare attraverso l’arresto degli oligarchi ostili. Ma è proprio la disinvoltura mostrata dal governo a rendere oggi ancora più impervio il cammino per una restaurazione non del potere autoreferente di un autocrate senza scrupoli, bensì del potere politico democratico, responsabile verso gli elettori e sottoposto al loro controllo, che è poi l’unica distinzione che conta – nell’Italia di oggi – tra un rappresentante del popolo e un gip, un direttore di giornale o un banchiere.
Adesso, invece, tutto si fa terribilmente più difficile, mentre la discussione sul partito democratico si avvita in mille dettagli senza importanza, al termine di una settimana in cui la politica ha continuato a perdere terreno e credibilità. E forse stiamo davvero diventando matti, ma ci pare proprio che tutto questo acquisti particolare significato, nei giorni in cui Francesco Cognetti riprende tranquillamente il suo posto al Regina Elena e Michele Santoro fa altrettanto alla Rai.