Sconfitta socialdemocratica, chiara e rara. I “sossarna”, questo il nome in gergo dei socialdemocratici svedesi, non erano mai scesi fino al 35% dei voti (perdono il 4% dal 2002) da quando c’è il suffragio universale. E mai i quattro partiti del centrodestra erano apparsi più uniti (Allians, non a caso, il nome sfoggiato in questa campagna elettorale), più in grado di spostarsi, tutti, verso il centro e più concordi su una premiership tutta nuova: quella del conservatore Reinfeldt. Tutto ciò spiccava di fronte alla leadership di Persson, piena di successi economici, ma secondo molti declinante, logorata dallo stile accentratore che ha provocato disappunto a cerchi concentrici: fra gli altri ministri, nel partito, nei partiti che sempre più a malincuore gli assicuravano appoggio parlamentare esterno (Verdi e postcomunisti), nella vastissima area d’opinione sparsa fra sindacato ed elettorato.
Ha insomma pagato fino alla vittoria la lunghissima ristrutturazione dei partiti liberalconservatori, cominciata almeno trentacinque anni fa, allorché il partito di Reinfeldt si scosse di dosso il conservatorismo ottocentesco cambiando nome: non più Destra (Högre) ma Moderati (Moderaterna). Da allora è cominciato un lungo cammino, che solo Reinfeldt ha concluso avvicinandosi davvero al centro, lontano dalle parole d’ordine e dai programmi liberisti, di cui è rimasta solo l’idea-bandiera di abbassare i tassi di sostituzione delle indennità di disoccupazione, provvedimento che secondo i prossimi governanti favorirà una maggiore occupazione (anche se la disoccupazione non pare un’emergenza: è intorno al 6%). Questa evoluzione sempre più centrista e moderata del maggiore partito di centro-destra ha consentito alle altre componenti della coalizione di accettarne la guida, e di offrire quindi una proposta di governo più compatta e nuova di quella dei rivali di centro-sinistra. Certo, ciò è costato non poco in termini di visibilità e quindi di voti: i liberali (Folkpartiet) sono usciti quasi dimezzati raccogliendo il 7,5%, mentre il Centerpartiet, vicino al mondo rurale, è calato di circa due punti e si è attestato sul 6,6%. Unici a crescere, oltre ai Moderaterna passati dal 15 oltre il 26%, sono stati i democristiani: registrando un +1,7% sono oggi il terzo partito assoluto con il 7,9%.
Ma la sconfitta della socialdemocrazia è individuabile anche in altri dati: gli affiliati alla confederazione sindacale Lo l’hanno votata al 55% mentre nel 2002 il 59% di loro aveva messo la croce sul partito di Persson, e anche Stoccolma è andata perduta, mentre in varie altre roccaforti comunali (Göteborg e Malmö) le posizioni sono state mantenute, ma sempre al ribasso e con fatica. L’estrema destra nazional-populista (Sverigedemokraterna) è avanzata ottenendo risultati notevoli sul piano delle elezioni comunali (che in Svezia si svolgono tutte contemporaneamente a quelle legislative) senza però oltrepassare l’1,9% nazionale, e quindi rimanendo sotto la barriera del 4% che permette di entrare in parlamento. Il loro risultato però, ottenuto specialmente nelle città meridionali in cui grande è da sempre la presenza di immigrati e la forza operaia, potrebbe avere intaccato il voto socialdemocratico, proprio come nel resto d’Europa. Tutto ciò ha prodotto una maggioranza di 178 a 171 in favore del nuovo governo di Reinfeldt, e si può prevedere che i Verdi (piccolo avanzamento al 5,2%) non rimarranno a fare un’opposizione schierata vicino ai socialdemocratici, ma cercheranno di guadagnare visibilità ottenendo concessioni ambientaliste (ed euroscettiche), per poi o trattare un’alleanza più paritaria a sinistra, oppure distaccarsi del tutto da questo blocco, cosa che hanno tentato di fare già in passato.
Certo, il nuovo governo dovrà stare bene attento a come si muove, perché il mandato ottenuto è stato più o meno quello di cambiare governo (perché è ora, perché Persson è impopolare, perché il suo partito ha occupato da molti decenni tutto il potere) ma senza toccare nulla di essenziale. Non a caso in questa campagna elettorale piena di spionaggio informatico liberali e democristiani sono stati pizzicati a violare l’intranet dei socialdemocratici per copiarne in tempo i programmi. Ne sono seguite ignominiose dimissioni, e non c’è dubbio che anche di questo si è giovato il partner maggiore della coalizione liberalconservatrice, risultato il più serio e credibile agli occhi di chi intendeva votare per un cambio al governo.
Ma potrebbe risultare frustrante, alla lunga, rimanere ligi alla prudenza dei programmi elettorali. Si potrebbero cioè aprire spaccature nella coalizione fra chi vuole più riforme e chi invece non intende rischiare e anzi, per esempio proprio il Centerpartiet, avrà certo voglia di riguadagnare consensi giocando la carta facile della critica al ridimensionamento del welfare. Tanto più che i risultati ottenuti da Persson e dai suoi predecessori saranno davvero difficilissimi da battere: degli ultimi 24 anni la socialdemocrazia ne ha governati 21, e la ricchezza del paese è raddoppiata. Negli ultimi anni, poi, la Svezia è stata ai vertici occidentali nella creazione di lavoro, nella crescita, nell’innovazione, nei conti pubblici. La rivincita potrebbe arrivare, insomma, fra una o due legislature, soprattutto se, con questa eredità non facile da imitare, Reinfeldt si lascerà prendere dalla voglia di strafare.
I socialdemocratici dovranno però rinnovarsi con calma, credibilità e profondità (cioè senza cadere nelle lotte intestine del dopo-sconfitta che hanno devastato i loro compagni danesi). Persson ha già da ieri annunciato che si dimetterà in occasione del congresso anticipato previsto per marzo. E oggi i più sono pronti a scommettere che sarà una donna a succedergli: le maggiori candidate sono Margot Wallström, apprezzata commissaria europea, la leader sindacale Wanja Lundby Wedin, che sostenne molto Persson ai tempi dello sfortunato referendum sull’Euro, e Mona Sahlin, tutte ormai più popolari di Persson. E tutte anche in grado di prendere atto della maggioranza di donne che vota il partito, nonché del fatto che il piccolo Iniziativa Femminista ha comunque raccolto un 1% di voti in libera uscita. La tradizione è quella di un partito che non si divide in modo traumatico, che procede senza personalismi, o almeno senza lasciarli trasparire. E’ più facile, in fondo (come ben sa la sinistra italiana) imparare a fare l’opposizione che imparare a governare.