Non è il solo, ma il filosofo Lee Harris – ripreso giovedì dal Foglio per tre lunghe pagine – è quello che si è impegnato di più a tenere su il pilastro fondamentale del discorso papale di Ratisbona (ne abbiamo scritto qui la scorsa settimana). Discorso che denunciava l’incompatibilità di religione e violenza sol perché affermava la compatibilità di religione e ragione. Lee Harris dice giusto: è di questa affermazione che bisogna discutere – fermo restando che nessuno sceglie gli esempi a caso, e che dice giusto pure Vito Mancuso (teologo) quando scrive che la scelta bizantina dell’esempio, unitamente alla soppressione del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, nel marzo 2006, non danno l’impressione di un Papa assai dialogante. Harris va però ben oltre la semplice affermazione, e prova a convincerci che a Ratisbona il Papa si muoveva – tenetevi forte – nello spirito di Socrate. Socrate l’impertinente, l’uomo che i concittadini accusarono di empietà, che mise alla berlina un pontifex come Eutifrone, che vestiva casual e non apprezzava granché i paramenti sacri, che dinanzi al tribunale di Atene che lo stava per condannare a morte disse di non sapere come stessero le cose nell’aldilà e che in fondo non era importante, e che alla prosopopea del potere rispose rivendicando di ragionare di testa sua. Questo fu Socrate: un chiacchierone e un ironista, ed è noto che in chiesa, in mezzo ai riti e ai miti, le chiacchiere e l’ironia hanno un effetto corrosivo che gli officianti di solito non apprezzano.
Ma Lee Harris sa come smorzare il paradosso: come Socrate spingeva a riconsiderare daccapo, con spirito libero da pregiudizi, quel che si crede di sapere già, così fa oggi Ratzinger. Con la differenza che al tempo di Socrate l’ovvio e l’indiscusso che la critica filosofica metteva in questione erano le credenze religiose (e i greci ne avevano di strambe), mentre quel che oggi più profondamente si sottrae alla discussione non sono le credenze religiose (che sarebbero assai più ragionevoli), ma proprio la convinzione che esse siano fuori della portata della ragione.
Ratzinger come Socrate, dunque. Io sono convinto che mai Socrate avrebbe abitato nelle stanze vaticane (Aristotele, grazie a Tommaso d’Aquino sì, ma Socrate è un’altra cosa) però non voglio affatto sottrarmi all’esercizio proposto da Harris, che consiste essenzialmente nel riesaminare la convinzione che su Dio e sulla religione la ragione non abbia nulla da dire. Così ve lo ripropongo, scandito in tre tempi. Primo tempo: altro è la ragione scientifica moderna, altro è la ragione tout court. Quel che è fuori della portata della prima, non è necessariamente fuori della portata della seconda. Secondo tempo: la ragione non può rinunciare a dire una parola di discernimento tra le molte fedi e religioni dell’umanità; se fossero tutte, innanzi ad essa ragione, su un piede di parità, indipendentemente dal loro contenuto etico, se il concetto di religione ragionevole fosse una specie di ferro ligneo, verrebbe meno ogni fondamento razionale al rifiuto delle religioni che portano la spada (qui sta il ruolo decisivo giocato dalla citazione di Manuele II Paleologo). Terzo tempo: la ragione moderna deve ammettere che può esistere solo entro una comunità di uomini che antepongono la ragione alla violenza. Se però questa scelta non fosse ragionevole, non sarebbe ragionevole l’esistenza di quella comunità in cui sola può esistere la ragione. Il corollario è: il cristianesimo è parte fondamentale di quella cultura etica e religiosa che ha consentito l’affermarsi della comunità ragionevole degli uomini.
È tutto. Ora provo a esercitare a mia volta l’uso della ragione. Cominciando da ciò su cui sono d’accordo: non c’è solo la ragione scientifica moderna. Quel che è ragionevole è per tutti noi ben più ampio di quel che sta nei manuali di chimica e fisica. E poi c’è la filosofia, e finché potrò, ne difenderò la razionalità. Ciò su cui però non posso essere d’accordo è che, limitati i titoli della ragione scientifica moderna, acquisti automaticamente titolo ciò che piace a Lee Harris (o al Papa – va da sé). Harris passa peraltro completamente sotto silenzio il fatto che la più ampia ragione metafisica che a lui piace è franata anzitutto in sede filosofica. Mi si perdoni la semplificazione (non intendo usare le tre pagine di Harris): non è colpa della scienza moderna se manca la dimostrazione dell’esistenza di Dio, o se non regge l’idea di un fondamento naturale dell’etica. A Harris (e pure al Papa, suppongo) torna poi facile mettere di qua la ragione, di là la violenza, ma alla filosofia non più: che dire del fatto che la ragione è stata, nel corso della storia, violenta (a volte: molto violenta)? Io sono mancino, e per secoli è suonato normale, naturale e razionale usare violenza verso i mancini: come la mettiamo? Non credo ci sia bisogno di fare l’elenco ben più tragico dei gruppi umani che han dovuto subire nei secoli la violenza di ciò che era reputato normale, naturale e razionale. Quanto poi al fatto che ci sarà pure una differenza tra l’usare la spada e la parola, e non è possibile pensare che si tratti della stessa violenza, rispondo che ovviamente sono d’accordo, ma che, ahimè!, non è questo il punto. Anzitutto perché quella distinzione è precisamente una conquista della ragione moderna, che ha guadagnato lo spazio per la libertà della parola anche contro la violenza delle religioni (compresa quella cristiana). E in secondo luogo perché Harris stesso si spinge a sostenere che “un uomo ragionevole non può permettere che…”, cioè ritiene che lo spazio della parola vada difeso con la spada. E non si tratta di un passaggio accidentale del suo discorso (Harris non è il Papa), perché è lui stesso che spiega (nel terzo tempo del suo esame) come la ragione non possa non presupporre se stessa: e siccome la storia non è un rebus logico, questo significa in concreto che se la storia non va dalla sua parte, la ragione deve intervenire per raddrizzarla.
Ma c’è un punto sul quale Harris non viene in chiaro con il senso ultimo del suo stesso esame, destinando così la sua appassionata difesa alla perfetta irrilevanza filosofica. Harris non può lamentarsi del carattere astratto, formale, soltanto procedurale della ragione moderna – che esclude, come diceva Kant, i sommi fini dell’esistenza umana dal novero delle questioni razionali – e poi portare argomenti con i quali si dimostra che invece la ragione moderna un contenuto sostantivo, volens nolens, non può non averlo – con lo sgradevole sottinteso che dunque non faccia la finta ingenua e accetti di sobbarcarsi il peso della metafisica scolastica. Perché finto ingenuo (o ingenuo del tutto) è proprio Harris: la ragione moderna ha infatti un contenuto: il nostro attuale mondo, rispetto al quale il ruolo che giocano tecnica e scienza ed economia, cioè le forme più massicce di esercizio della razionalità moderna, non è affatto neutrale, meramente formale (né si vede perché dovrebbe esserlo). Non si tratta cioè del fatto che la fede sia colpevolmente rimessa dalla ragione moderna ad una scelta soltanto soggettiva, ma proprio del fatto che, per il carattere sostantivo della ragione moderna, manca – manca logicamente e manca realmente: manca nel mondo – la dimostrazione che c’è bisogno di Dio.
Quanto infine alla filosofia, essa domanda da sempre, da che è filosofia: qual è il contenuto della forma? Ma che la forma – cioè la ragione, quindi anche la ragione moderna – abbia un contenuto, significa l’esatto contrario di quel che vorrebbe Harris: significa cioè che non gliene si può inoculare un altro secondo i nostri desiderata – o quelli della Chiesa. E domandare infine candidamente come possa darsi la possibilità di scelte razionali, senza il libero arbitrio (il libero arbitrio: una cosa, per capirci in fretta, che non si saprebbe come tradurre nel greco antico di Socrate) significa che la ragione sciorinata per tre pagine da Harris è solo il nome che egli dà ai propri desideratissimi pregiudizi metafisici, anche se qualcuno la troverà “commovente ed eroica” come il discorso papale.