Come è apparso evidente dai primi passi del Governo Prodi, la questione mediorientale tende sempre più a divenire (anche) una questione di politica interna. Per molte ragioni: perché la regione in fiamme è alle porte di casa nostra e perché tale incendio ostruisce lo sbocco a mare di una nuova via della Seta – su cui Prodi ha costruito un asse con le grandi imprese che cercano sbocchi internazionali – e perché in Medio Oriente è in gioco il profilo e l’identità dell’occidente. A partire dal problema dei problemi, come fare i conti con “l’altro”: come sconfiggere il terrorismo globale e come trattare con l’islam politico e radicale, che anche grazie ai nostri errori di occidentali sta guadagnando terreno e consenso in Medio Oriente e in Europa. Per coglierne i riflessi di politica interna basta ricordare la strumentalizzazione – tutta italiana – della visita di D’Alema a Beirut, perché scortato da un deputato di Hizballah, a cui mise fine il ringraziamento del primo ministro israeliano Olmert per il ruolo avuto dall’Italia nella crisi libanese.
Sulla stessa falsariga ci sembra essere un articolo di Emanuele Ottolenghi, sul Riformista di sabato 7 ottobre, dal titolo: “I facili entusiasmi di Prodi e D’Alema sono puntualmente smentiti dai fatti”. Ottolenghi sostiene che sia in atto una guerra civile tra Hamas e Fatah. Dunque D’Alema non si sarebbe accorto dell’impossibilità di quel governo di unità nazionale palestinese da lui tanto desiderato. Ma soprattutto, secondo Ottolenghi, la guerra civile dimostra come siano ambigui e pericolosi i tentativi di includere Hamas in un processo politico: perché Hamas non rinuncerà mai – e la difficoltà a formare un governo di unità nazionale lo dimostrerebbe – alle sue posizioni contro l’esistenza di Israele e all’uso della violenza. Dunque “la tentazione prodiana e dalemiana… di far lo sconto ai terroristi è forte. Sarebbe un grave errore”. Hamas non cambierà mai (“nessun segnale di moderazione arriva da Hamas”), quindi niente entusiasmi (vista anche “l’ufficiale metamorfosi dell’Autorità Nazionale Palestinese in Anarchia Nazionale Palestinese”) e nessun dialogo. Perché sarebbe intelligenza con il nemico, e un cedimento sui valori occidentali.
L’articolo pone insomma due questioni. La prima, più specifica: è intelligenza con il nemico cercare di includere Hamas (naturalmente non ad ogni costo) in un processo politico? La seconda, più generale – ma anche diretta conseguenza della prima – riguarda il rapporto, in Medio Oriente e non solo, tra etica e politica.
La risposta alla prima domanda, per Ottolenghi, è sì: lavorare per includere Hamas è illusorio. Ma nel suo articolo non risponde alla domanda successiva, che da tale risposta consegue: che fare? Sarebbe molto pericoloso – anche per l’Italia, oltre che per Israele e i palestinesi – lasciare scoppiare in Palestina una guerra civile. Dunque occorre tornare alla politica. E ciò significa trattare con Hamas. Perché, certo, Abu Mazen può licenziare il primo ministro di Hamas Ismail Haniyya (articolo 45 della Costituzione), ma ogni nuovo governo deve avere il sostegno della maggioranza assoluta dei deputati (articolo 67) e il consenso di Hamas è pertanto indispensabile, anche se non sufficiente, perché un terzo dei suoi deputati sono ora in prigione in Israele. Ogni nuovo governo dovrà dunque avere il sostegno sia di Hamas sia di Fatah per ottenere la necessaria maggioranza.
Lo stesso vale per un eventuale governo tecnico, che sempre dal parlamento deve essere votato. Né si può pensare a sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni: l’articolo 47 (così come emendato nel 2005) chiaramente stabilisce che “la durata della legislatura è di quattro anni a partire dalla data delle elezioni”, e ogni cambiamento della Costituzione deve passare per questo parlamento, in cui la maggioranza è di Hamas. Si vuole ipotizzare uno “stato di emergenza”? Secondo l’articolo 110 il Presidente lo può dichiarare per una durata non superiore al mese, e può essere rinnovato solo con un voto parlamentare. E se Abu Mazen volesse provare a usare tale stato di emergenza per nominare un nuovo governo, l’articolo 79 afferma la necessità di un voto di fiducia da parte del parlamento. Né si può utilizzare tale emergenza per sciogliere il parlamento, perché l’articolo 113 chiaramente afferma che “dissolvere il parlamento o sospenderlo durante il periodo di uno stato di emergenza non è permesso”; e nello stesso articolo si afferma chiaramente che questo non può essere sospeso in nessuna sua parte. Dunque, Hamas, vincendo nel 2006 il voto popolare imposto ad Abu Mazen da Stati Uniti e comunità internazionale, si trova al riparo legale da ogni colpo di mano del Presidente grazie ad una Costituzione che con tutti questi meccanismi di garanzia è stata imposta ad Arafat nel 2002 da parte degli stessi soggetti, Usa e comunità internazionale, che li vollero così stringenti per evitare colpi di mano del vecchio Ra’is. Ironia della sorte, certo. Ma ciò significa una cosa sola: o caos o governo di unità nazionale.
La seconda ipotesi ci pare di gran lunga preferibile, per tutti. Ma per percorrerla è necessario separare etica e politica. E qui siamo alla seconda domanda. Oggi si parla di Medio Oriente con le stesse categorie utilizzate per la lotta politica in Italia, in cui etica e politica si confondono continuamente. Dunque si fa (o si crede di fare) politica moraleggiando, e si fa (o si crede di fare) morale facendo politica. In tale situazione, fatalmente, vincono gli estremismi delle ideologie e perde il riformismo delle cose da fare e da cambiare. Ne è un esempio l’articolo di Ottolenghi, ma si potrebbe citare anche Gino Strada.
Non è contraddittorio mantenere una simile impostazione, tutta mutuata da una battaglia politica interna, quando allo stesso tempo quello che si chiede all’Islam è proprio di separare etica e politica, per favorire la nascita di una sfera autonoma di quest’ultima? Eppure è per questo che viene attaccata la politica mediorientale del governo: essa si basa su una separazione tra etica e politica, che rispetta la prima ed esalta la seconda.
L’esempio potrebbe essere contagioso. E magari da Orvieto e dal governo arrivare anche al resto del paese, per superare il più forte ostacolo ad una nuova politica riformista posto da massimalisti e conservatori. Di qui il fuoco di fila delle interdizioni e delle profezie di sventura, che riguardano non tanto Hamas in sé, quanto il modo di rapportarsi ad esso. Cioè parlano di noi, e di ciò che dovremmo o non dovremmo essere all’alba di questo nuovo millennio.