Come ciclista, in verità, Luigi Malabrocca non fu nemmeno tanto scarso. Corse da professionista per un decennio tra gli anni ’40 e i ’50 dopo una carriera da dilettante colma di vittorie. Tra i pro mise insieme un palmarès rispettabile: conquistò 15 corse, tra le quali spiccano una Coppa Agostoni, classica lombarda di notevole spessore, e due campionati italiani assoluti di ciclocross. Nonostante i suoi discreti risultati, Malabrocca dovette affrontare due problemi che gli aguzzarono l’ingegno. Il primo: correva nell’epoca eroica di Coppi, Bartali, Magni, Koblet, Robic, Bobet, Kubler. Gente troppo forte, almeno per lui. Avesse corso per vincere, non gli sarebbero rimaste che le briciole, come in effetti accadde. Il secondo: visse in un’epoca in cui il ciclismo non era semplicemente uno sport, bensì un modo tra i tanti per sfuggire alla miseria, per avviarsi verso un’esistenza dignitosa, per ricostruire il piccolo pezzo d’Italia dei propri interessi privati dopo la tragedia e le devastazioni della guerra.
Malabrocca fece due conti, m’immagino, e capì probabilmente che, per sfangarla, essere un buon ciclista non gli sarebbe bastato, ma soprattutto si rese conto che ciò che andava forte sul mercato dell’interesse popolare – e allora il ciclismo era in Italia, tra gli sport, di gran lunga quello che raccoglieva il maggior numero di tifosi – non era la pur dignitosa fatica del corridore, bensì la capacità che pochi possedevano di essere protagonisti di quelle storie, di quelle leggende che tenevano seduti sui paracarri per ore e ore tra la polvere e il caldo milioni di appassionati, lungo le strade del Giro e delle altre corse.
Per Coppi, Bartali e gli altri era facile: erano fatti per vincere, macchine ciclistiche perfette fatte di muscoli, cuore, polmoni e garretti. Il Campionissimo, in particolare, conterraneo di Malabrocca, figlio anch’egli di quella landa di nessuno tra il mare, gli Appennini e la pianura, maledetta da tutto tranne che dagli dèi del ciclismo, costruì la sua leggenda come evoluzione naturale della sua vocazione, di quel torace carenato capace di contenere, si dice, sei litri d’aria, di quei muscoli di seta e d’acciaio, magrissimi ed elastici. Insomma: Coppi, per diventare Coppi, per accendere la fantasia di giornalisti e tifosi, non dovette far altro che ciò che gli veniva spontaneo, cioè vincere, staccare tutti, sgretolare i rivali sulle rampe dell’Izoard o dello Stelvio. Malabrocca dovette far la fatica di capire che più di qualche magra vittoria gli sarebbe servito essere il protagonista di una storia che si potesse raccontare, che suscitasse l’interesse della gente, che venisse ripresa sui giornali, che si vendesse bene. In anticipo di decenni sui tempi, colse il nesso tra sport e show business, che oggi pare ovvio e porta gli atleti a posare per calendari e set pubblicitari, a sfilare in passerella, a partecipare all’Isola dei Famosi.
L’occasione decisiva gli venne offerta dall’organizzazione del Giro d’Italia, che in quegli anni istituì un premio non solo per i primi classificati, ma anche per l’ultimo, che sarebbe persino stato il portatore di una speciale maglia al pari del primo classificato: la maglia nera, antipode della maglia rosa. Malabrocca scelse il suo destino e s’inventò il proprio mito: per due anni consecutivi, nel ’46 e nel ’47, riuscì a giungere a Milano all’ultimo posto della classifica generale, dominata da Coppi e da Bartali. Si aggiudicò i premi in denaro, dettò una buona storia da raccontare, ne incarnò il protagonista perfetto anche nel nome, con quel “brocca” finale a ricordare il gergale “brocco”: Malabrocca, la maglia nera, l’ultimo degli ultimi, lo sfigato, il Calimero del gruppo. Entrò nell’immaginario collettivo ispirando simpatia, tenerezza, forse anche pena e scherno, consapevole che tutto sarebbe stato preferibile all’onesto anonimato. L’edificazione della leggenda non fu incontrastata: dovette fingere cadute, autoprocurarsi forature, simulare malanni, nascondersi nei bar lungo la strada per ingannare i molti epigoni che presto cercarono di soffiargli il primato negativo. Nel ’49 non riuscì a conquistare la sua terza maglia nera perché venne beffato da tal Sante Carollo, ciclista vicentino. Benché fosse giunto al Vigorelli di Milano, traguardo dell’ultima tappa, con più di due ore di ritardo che gli sarebbero valse il sorpasso a ritroso nei confronti del rivale proprio sul filo di lana, i giudici di gara, impazienti, non lo attesero e lo classificarono con lo stesso tempo del gruppo, privandolo ingiustamente della sconfitta.
Luigi Malabrocca è morto settimana scorsa, a Garlasco, dopo aver avuto il raro privilegio, condiviso con Maramaldo, Perpetua, Giuda e Carneade, di poter fare del proprio nome un’antonomasia. Mi auguro che gli amministratori del comune pavese dove è vissuto o della nativa Tortona decidano di dedicargli una piazza o una via. Con una raccomandazione: l’intitolazione non sia la banale “Luigi Malabrocca, ciclista”. Piuttosto: “Luigi Malabrocca, genio postmoderno”. Meno celebrato di Dalì e Warhol, meno globale di Paris Hilton e Madonna, meno talentuoso di David Letterman e Umberto Eco, ma non per questo meno degno di essere ricordato.