Che il ciclismo sia un formidabile creatore di storie, noi che lo amiamo da sempre non lo scopriamo oggi. Storie tragiche e grandiose, consegnate alla leggenda da immagini celebri e letteratura straordinaria: la rivalità tra Coppi e Bartali nell’Italia del dopoguerra, Lance Armstrong che sconfigge un cancro e vince sette Tour de France, Marco Pantani che precipita nel vortice delle cattiverie e ci lascia la testa.
Ma in ciò che abbiamo vissuto sabato scorso c’è sembrato di vedere qualcosa di più di una storia; ci è sembrato di intravedere un paradosso dei nostri tempi.
È l’ultima corsa della stagione, il Giro di Lombardia. Nell’ambiente la chiamano la classica delle foglie morte, con la poesia che il ciclismo sa inventare. E veramente deve essere autunno nel cuore di Paolo Bettini: appena tre settimane fa si è laureato campione del mondo in una corsa che lo ha consacrato definitivamente tra gli immortali del ciclismo; neanche il tempo di gioirne che la vita lo richiama all’ordine: in un incidente stradale muore suo fratello Sauro, prima compagno di allenamenti, poi suo più grande tifoso. Bettini è stravolto, medita di abbandonare il ciclismo, di chiudere qui la propria carriera. Non ci sarebbe nulla di strano: è già avanti con l’età e ha già vinto tutto o quasi quello che poteva desiderare.
Invece decide che no, non è ora di finirla. Decide che non si può lasciare quel mondo con la morte nel cuore. Prende parte alla corsa e corre a modo suo: non bada a tattiche e strategie, attacca su ogni salita, si si toglie di dosso gli avversari uno dopo l’altro, e come niente si ritrova in testa da solo. Taglia il traguardo in lacrime, si copre il volto con le mani, singhiozza; e con la smorfia del pianto alza le braccia al cielo indicando il fratello scomparso. Eccola. Ecco l’immagine da consegnare alla storia: l’uomo più forte del mondo che domina l’ultima corsa e vince piangendo la morte del fratello. L’eroe e l’uomo. La leggenda e la vita reale. Fine.
Sabato scorso però, subito dopo la gara, è successa una cosa strana: noi eravamo tutti lì, estasiati e commossi, davanti alle lacrime di un uomo che dalla cima dell’Olimpo era stato scaraventato giù a fare i conti con la vita reale, nuda, cruda e cattiva; un uomo che sceso vittorioso dalla bici correva ad abbracciare il nipote, quel ragazzino di undici anni che aveva appena perso il padre. E a chi serviva altro se non quel gesto, quell’impresa, quel volto? Che altro serviva a tutti noi per sentirci vicini a quell’uomo? È che quando il cronista gli ha messo quel microfono davanti ci è sembrato che si rompesse un incantesimo, quell’intimità discreta che si era creata tra noi e lui: non appena, cioè, l’inviato della televisione ha iniziato ad incalzarlo, a chiedergli di spiegare quello che era già palese per tutti, di commentare quei gesti e quelle sensazioni; a pretendere da un uomo che si è appena sciroppato 200 chilometri di spiegare in 15 secondi il groviglio di emozioni che gli si agitava nel cuore. Bettini parla, spiega, sorride, dedica; ma tra noi e lui c’è quel microfono, quelle parole belle, bellissime, ma superflue. E d’un tratto abbiamo sentito uno schermo tra noi e lui, ci siamo sentiti più distanti. È che eravamo appena entrati nel paradosso dei reality, dove più i microfoni e le telecamere si avvicinano, meno la realtà sembra autentica, e tanto più a fondo le telecamere scrutano, quanto più cresce la distanza tra noi e loro.
Il bello delle storie è che accadono. Il bello delle storie è raccontarle, certo. Ma certe storie si raccontano da sole.