Then Came Affliction To Awaken The Dreamer” segna la nascita di una band a lungo rimasta in incubazione, i Twisted Into Form: originali e propositivi nella scelta del nome; curiosi e sottilmente inquietanti in quella del titolo; ambiziosi nel progetto musicale. La forma nella quale costringere i suoni è infatti un raffinato incrocio di metal (classico, ma anche black), progressive anni Settanta (più sinfonico che barocco) e jazz. Un genere, quest’ultimo, la cui contaminazione è già stata assorbita con esiti notevoli dai Meshuggah e che tenta molti gruppi metallici, non a caso: le strutture frammentate del jazz, le improvvisazioni, i dialoghi strumentali sono capisaldi anche del metal. Il terreno d’incontro è già fertilizzato. E il rinnovamento del metal – i cui canoni, adesso, cominciano a essere sin troppo frequentati – potrebbe cominciare proprio da lì. Da Coltrane a Thordendal, da “Bitches Brew” a “The Sound Of Perseverance”.
In questo frangente, i TIF s’inseriscono con un lavoro di certo raffinato e rifinito, eppure timido rispetto alle intenzioni: la band è formata a Oslo, nel 2000, da Kaj Gornitzka (chitarre, ex-Spiral Architect) ed Erik Aadland (basso). Come riportato nel sito ufficiale, l’idea è quella di “fondere l’intensità del jazz/fusion con la tecnica metal, creando emozioni straordinarie attraverso il contributo di ciascun musicista”. E per rispetto massimo di questo dettato, si stabilisce di evitare il normale percorso produttivo e commerciale (niente demo né concerti).
David Husvik (batteria, anche negli Extol) completa la prima line-up che può così dedicarsi ad un lungo periodo di prove; quando, alla fine, la band decide di essere pronta, sceglie anche di auto-prodursi, sulla lunga distanza. Il MultiMono Studio dell’amico (nonché batterista degli Spiral Architect) Asgeir Mickelson è appena aperto e i TIF ne diventano il primo ospite; con l’inclusione del cantante Leif Knashaug (che non ha paura di ostentare il drastico giudizio ricevuto, nell’87, dalla rivista “Kerrang!”: “He’s a piss poor vocalist”), le registrazioni iniziano a gennaio 2004 per concludersi nello scorso marzo.
L’album esce negli USA il 19 settembre (quindi in Messico e da lì in Europa), rivelandosi specchio fedele di un tentativo generoso eppure frenato da un eccesso di programmazione: forse il timore di apparire troppo distaccati dalla materia spinge i TIF ad esagerare con la dose di prog – per inciso, il produttore Neil Kernon vanta esperienze con Cannibal Corpse e Red Harvest, ma anche con Yes e Brand X – fino a riproporre progressioni emersoniane (l’inizio di “Enter Nothingness” richiama il tema di “Tarkus”) o alla Stevie Howe. Ma non appena questa sovrapposizione s’attenua, la band appare decisamente a proprio agio e il virtuosismo tecnico, per quanto “cool”, non è raggelante. Dopo “Enter Nothingness”, iniziale esercizio di riscaldamento, “Instinct Solitaire” e “Torrents” innalzano il livello, con buoni cambi di ritmo e frammentazioni marca King Crimson; “The Flutter Kings” è il terzo brano a spiccare, mentre il resto si spinge ai confini senza mai oltrepassarli, nemmeno ricorrendo a influenze latine (“Erased”) o black (“House Of Nadir”).
Il brano migliore è proprio quello che, sin dal titolo, rivendica la propria collocazione: arrivati al decimo brano, con “Coda” i TIF sembrano sciogliersi dalla rigidità dello schema e trovare il giusto grado di improvvisazione e abbandono. Tutti elementi che dovrebbero costituire le coordinate future del loro suono, se riusciranno a liberarsi anche dell’ultima, apparente, preoccupazione: quella di distanziarsi troppo dalla propria area di riferimento. Come se fosse facile, in qualsiasi campo.