Su richiesta del pubblico ministero, la Corte d’Assise di Bruxelles ha assolto il ventiseienne David Bouchat e il suo amico Sebastien Leonard, ventinove anni, dall’accusa di aver assassinato Christian Malot, cinquantanove anni, e sua moglie Andree Vandend Bossche, sessantuno anni. Malot è l’uomo che ventidue anni fa adottò il piccolo David, e che abusò ripetutamente di lui. La moglie Andree è la donna che, pur avendo assistito alle violenze del marito, non volle mai denunciarlo. Negli anni seguenti, David Bouchat si rivolse alla magistratura, ma la magistratura non diede corso alle sue denunce. La sera dell’assassinio, David si era recato con l’amico Sebastien a casa di Malot per chiedergli spiegazioni. Ma questi gli aveva dato del bugiardo e lo aveva irriso. David e Sebastien lo accoltellarono, accoltellarono anche la moglie, e diedero la casa alle fiamme. I corpi di Malot e di sua moglie furono trovati carbonizzati. Il pm, Luc De Vits ha sostenuto che al momento dell’omicidio i due giovani fossero “sotto l’effetto di una forza irresistibile”. Quella sera, la forza irresistibile si impossessò non solo del giovane David, ma anche del suo amico Sebastien, che si macchiò dello stesso delitto. La forza irresistibile non fu però così irresistibile quando il coltello di Sebastien si alzò sul corpo della donna, visto che De Vits ha chiesto di mandare il giovane sotto processo per le coltellate mortali inflitte alla donna (però fu irresistibile abbastanza per i colpi sferrati da David). I giornali riportano anche questo passaggio, a quanto pare cruciale, di De Vits: “Quest’omicidio non ci sarebbe stato, se Bouchat non avesse subito da bambino, le violenze sessuali inflittegli da Malot. Il violentatore è l’accusato, che non si trova davanti a voi, che, invece, dovete giudicare la sua vittima”.
Sono casi come questi che motivano qualche escursione nel regno logico-morale. Almeno secondo Robert Musil, che ne scrisse molti decenni fa, ne L’uomo senza qualità. Moosbrugger era un uomo grande e grosso, “con tutti i segni della bontà”, racconta Musil, e “aveva ammazzato una donna, una prostituta d’infimo grado, in modo raccapricciante”. Al processo, l’avvocato difensore aveva invano cercato di sostenere la tesi dell’infermità mentale, con grande stizza e vergogna di Moosbrugger, il quale invece salutò con grande soddisfazione la condanna alla pena capitale inflittagli dalla Corte. Era soddisfatto Moosbrugger, perché, giudicato colpevole, aveva finalmente ottenuto il suo diritto. Era stato trattato da uomo. E proprio perciò condannato. E tuttavia, uscendo fuori dall’aula, sospinto dalle guardie, aveva gridato: “Sono soddisfatto, anche se debbo confessare che avete condannato un pazzo!”. Inconseguenza micidiale, roba che si sarebbe forse dovuto rifare il processo da capo, per mandare assolto un simile demente. E in effetti, spenti i riflettori dei giornali, un gruppo di periti aveva continuato ad occuparsi di lui, e l’esecuzione era stata rimandata a tempo indeterminato.
In questo tempo indeterminato Musil compie la sua escursione nei territori del diritto e della morale. Che comincia così. La natura non fa salti: tra la sanità e l’idiozia c’è una vasta gamma di casi intermedi. Ma in tribunale c’è poco da fare: o si è capaci o si è incapaci di intendere e di volere. Le attenuanti, d’accordo: ma o si è punibili o non lo si è. E siccome non si puniscono le bestie, ma solo gli uomini, la punibilità è precisamente la qualità che fa dell’uomo un ente morale: il giurista, perciò, non vi rinuncia facilmente. Poco importa che in natura “i passaggi dalla salute alla malattia sono sdrucciolevoli”; che la natura spesso se ne infischia delle condizioni di legge e ignora la logica dei giuristi: il giurista, infatti, “non attinge i suoi concetti dalla natura, ma trapassa la natura con la spada della legge morale e con la fiamma del pensiero”. E se c’è uno psichiatra chiamato dal tribunale in qualità di esperto, beh, qui l’ironia di Musil è veramente tagliente: “l’angelo della medicina tratta come infermi quei malati che si presentano a lui come clienti privati, ma [li] abbandona pavidamente all’angelo della giustizia se gli capitano fra i piedi nella pratica giudiziaria”.
Nel processo a David Bouchat e Sebastien Leonard non è andata così. A differenza di Moosbrugger, i due giovani sono stati assolti. Quel che tuttavia colpisce è lo strano miscuglio di sentimenti che le cronache dei giornali alimentano. Perché nessuno sembra credere davvero e sino in fondo alla forza irresistibile e un poco intermittente che avrebbe travolto due innocenti costringendoli all’assassinio, ma tutti o quasi sembrano soddisfatti della vendetta consumata. È come se l’angelo della giustizia, quello che brandisce la spada fiammeggiante della legge, si fosse alzato in volo una prima volta per scandalizzarsi beneducatamente della stramberia della sentenza, così da non dover affondare la libertà nel condizionamento di una forza empirica più grande di qualunque capacità morale, ma poi anche una seconda volta per restituire senso morale all’assoluzione, rivelando così una certa sospettabile parentela con lo spirito di vendetta. Si capisce bene che, al di là del caso specifico, quel che accade è che, in mancanza di qualunque chiarezza teoretica circa i concetti da cui dipendono i costrutti giuridici fondamentali, ci si tiene aggrappati a distinzioni percepite come rassicuranti, a buoni principi che hanno il pregio di evitarci i problemi più scottanti.
Ma Moosbrugger gioisce della condanna inflittagli. Ed è una gioia che toglie letteralmente il fiato. Perché è giusto che gioisca, dal momento che solo nella condanna gli viene riconosciuta la dignità di uomo; ma è altresì folle, perché gli viene riconosciuta la dignità di uomo proprio mentre gli si toglie la vita. Sia come sia nel caso di Bouchat, quel che dunque non si può più fare – almeno in filosofia – è fingere di non vedere che la razionalità giuridico-morale che si invoca per non avere dubbi sulla colpevolezza di Bouchat è quella che, per mettere al riparo la libertà dalle “forze” che la comprometterebbero, la pone così al di sopra dell’empiria, dello psichico, della vita stessa, da non poter tremare neanche dinanzi alla negazione di questa vita. Che è quello che per principio può succedere quando non è la vita che conta, ma appunto il principio – anche a costo della vita. Poiché non è per un mero errore giuridico che Moosbrugger viene condannato, ma per quel principio di dignità, di punibilità che egli saluta con stupefacente soddisfazione. Le parti magari si rovesciano, per una volta c’è un Bouchat che è assolto, ma c’è in giro ancora troppa soddisfazione.