Qualche anno fa, Roberto Racinaro ha curato la pubblicazione di un piccolo ma impegnativo saggio di Otto Kirchheimer, studioso tedesco fuggito dalla Germania nazista negli anni Trenta per approdare all’Istituto di Ricerca Sociale di Horkheimer a New York. Il saggio s’intitola Politische Justiz, e ha innanzitutto il pregio di essere stato scritto nel 1955. Dico il pregio, perché in tema di giustizia politica il dibattito pubblico in Italia è decisamente complicato (“complicato” è un pallido eufemismo) dalle vicende degli ultimi quindici anni. Meglio cercare allora diagnosi effettuate un po’ più indietro nel tempo, quando però era già delineato un fenomeno che, a detta di Kirchheimer, non interessava soltanto i regimi totalitari, ma interessava anche, in forme e gradi di intensità diverse, i sistemi democratici. Il fenomeno a cui ci riferiamo non è l’uso politico della giustizia, ovvero la strumentalizzazione dell’attività giudiziaria a fini politici, oppure più modestamente il protagonismo della magistratura, o ancora, su un terreno politico-ideologico, il giustizialismo. È invece ciò di cui tutte queste cose sarebbero o potrebbero essere un effetto. Questo fenomeno è il drammatico affievolimento della responsabilità politica, che Kirchheimer poteva osservare già cinquant’anni fa studiando le trasformazioni dei sistemi politici nell’Europa occidentale. Per affievolimento della responsabilità politica si deve intendere la circostanza per cui il governo si trova sempre più messo nella condizione di fare solo quel che non può non fare, quel che cioè viene a torto o a ragione percepito dal paese come una necessità più forte della volontà politica. Chiamati a fare “solo quello che sono obbligati a fare – spiega Racinaro – [i governanti] decidono sempre di meno. Decidono di più i tecnici dell’economia, i magistrati, i giornali. Quelli che in una democrazia dovrebbero essere «terzi», imparziali”.
È importante non scambiare mai l’effetto con la causa. Alla luce del lavoro di Kirchheimer, è abbastanza evidente che le polemiche sulla finalità politica delle inchieste giudiziarie, sul complotto delle toghe rosse, sulle sentenze ad orologeria (ma anche, dall’altra parte, per tutto il tempo in cui s’è chiesta a gran voce una moralizzazione della vita pubblica, le polemiche sull’inerzia della magistratura, sulle procure “porti delle nebbie”, sul formalismo causidico di certi alti magistrati), tutte queste polemiche, che intossicano la vita pubblica, fondate o meno che siano, non si pongono all’altezza della crisi della democrazia italiana. Non ne presentano le cause, ma cercano soltanto di interpretarne gli effetti. Se guardiamo invece ai processi che Kirchheimer si sforzava di analizzare, se ci interroghiamo sul modo in cui si vanno erodendo gli spazi della decisione politica, dobbiamo guardare con la stessa preoccupazione all’invadenza dei giornali, della magistratura o dei tecnici prestati alla politica. Le tre cose non sono poi così lontane l’una dall’altra, ma anzi possono formare un sillogismo micidiale, alla cui conclusione si giunge mettendo in una premessa scandali, inchieste e avvisi di garanzia, e nell’altra l’uso sapiente di questa materia sui giornali e negli organi di informazione: in mezzo a una simile delegittimazione, il mondo delle competenze, delle tecniche, degli affari, non può non risultare l’unico accreditato a governare agli occhi di una stanca e sfibrata opinione pubblica.
Ma è un risultato indebito. Indebito dal punto di vista democratico. Ad una sola condizione ha infatti senso una cosa come il governo tecnico dell’economia: a condizione che non vi siano decisioni da prendere, e che l’intera azione di governo discenda da certe necessità che non sono oggetto di decisione politica. Ma questo significa che le forme della democrazia rappresentativa, che costituiscono il luogo di formazione della volontà politica, non hanno più alcuna ragione d’essere.
Il senso di questi processi non è immediatamente visibile agli occhi dei più. Si ragiona infatti così: ciascun punto di vista è opinabile e per giunta interessato; perciò, è privo di verità. Tutte le volte in cui può essere accantonato, perché non di manifestare opinioni si tratta ma di offrire la soluzione tecnica di un problema dato, l’interferenza del punto di vista opinabile e interessato della politica deve essere respinta. La cosa ha un suo fascino sull’opinione pubblica, anche perché solleva dalle responsabilità, e vanta per giunta quella certa aura di moralità che la politica corrotta e corruttrice non può avere, dal momento che pretende di esercitare la discrezionalità che la tecnica invece per principio fa mostra di non conoscere.
In questa circostanza, invece di procedere alla confutazione filosofica delle premesse di un simile ragionamento, ci contentiamo di richiamarne la conseguenza. Che è quella indicata: la politicizzazione di tutti quei poteri neutri, terzi, imparziali che si pretendono puramente tecnici, e che pretendono di trarre la propria legittimazione da questa presunta purezza. La politica dunque, non scompare, più semplicemente si sposta di sede. E se è vero che è difficile dire “come andrà a finire”, è già molto che non sia ancora finita.