L’ opera non è finita finché non canta la cicciona. In America usano questa frase, in ambito sportivo, per ricordare che le partite finiscono al novantesimo (più recupero), che la Milano Sanremo si vince a Sanremo (e non sul Poggio) e, da ieri, che il titolo della MotoGp si vince (o si perde) all’ultima corsa. Tuttavia è probabile che nemmeno Earl Hayden, padre di Nicky, il fresco campione del mondo, pensasse che il suo ragazzo potesse farcela, per come si erano messe le cose. E le cose si erano messe con il pilota della Honda che, dopo essersi fatto rosicchiare un vantaggio di oltre cinquanta punti, terminava la penultima gara imprecando verso il cielo, coperto di polvere. Daniel Pedrosa, il suo compagno di squadra, aveva perso il controllo della propria moto all’ingresso di una curva, e lo aveva appena urtato, provocando il ritiro di entrambi. Risultato, Valentino Rossi andava in carrozza al traguardo, e si ritrovava nove punti avanti ad una gara dal termine. Una rimonta esaltante.
Nessuno, proprio nessuno, pensava che Nicky Hayden, un buon pilota, un regolarista, non certo l’uomo delle imprese disperate, potesse a questo punto recuperare lo svantaggio in una corsa secca contro il pilota più vincente dai tempi di Agostini. In tutta la stagione Nicky Hayden aveva vinto due sole corse. Rossi, nonostante i problemi, cinque.
Tutti quanti abbiamo conosciuto un Nicky Hayden: era il compagno di classe studioso e ordinato, secchione ma solo un po’, che non andava oltre il sette, per mancanza del colpo d’ala o per scarsa determinazione. Nel libro Cuore è Coretti, il diligente figlio del venditore di legna. In politica è Marco Follini. I Valentini Rossi della terra ai Nicky Hayden sono soliti fregare le fidanzate, figuriamoci i titoli mondiali.
Ma, appunto, non è finita finché non canta la cicciona, e al quarto giro del Gran premio della comunità valenciana è accaduto l’indicibile. Rossi è scivolato. Da solo. Il campione del mondo degli ultimi cinque anni, l’agonista perfetto, che doveva praticamente solo preoccuparsi di arrivare sano e salvo al traguardo, ha commesso un errore ed è caduto. Il Campione ha perso il titolo vinto due settimane prima. A quel punto Nicky Hayden si è ritrovato a dover fare semplicemente quello che sa fare meglio, girare con regolarità, e ha concluso la corsa dietro le due Ducati, rivincendo un campionato perduto. La scivolata di Rossi entra invece di diritto nel novero dei più grandi suicidi della storia dello sport. Come la fatal Verona del Milan, come Istanbul, come il cinque maggio dell’Inter, come Foreman contro Alì a Kinshasa.
Se alla Honda avessero senso dello spettacolo farebbero recapitare al loro ex alfiere una katana con dedica e ringraziamento da appendere in sala.
Chiariamo bene un punto. La vittoria di Nicky Hayden è giusta, perfetta ed ineccepibile. Anche a voler attribuire la scivolata di Rossi alla mano del destino, e non all’indicibile umanissimo errore del Campione, è comunque il pilota americano a restare in credito. Lui non era caduto, lui era stato spazzato via dalla caduta del compagno di squadra, o dalla legge di Murphy. Il fatto che Hayden non sia un personaggio, e quindi inadatto alla celebrazione della vittoria, quanto il suo avversario è ingombrante nella sconfitta, attiene alla dimensione del racconto. A volte non vince “il migliore”, il predestinato, l’atleta perfetto. A volte vince semplicemente chi ha fatto più punti. Con ordine, regolarità e sangue freddo quanto basta. Questi sono i fatti, questo è lo sport. E’ Nereo Rocco che all’allenatore avversario che gli augurava “vinca il migliore” rispondeva “sperèm de no”. Il resto è, appunto, racconto. E le sconfitte sanno essere più epiche delle vittorie. L’immagine del mondiale, più della stretta di mano che il fenomeno e il nuovo campione si sono scambiati in sella dopo il traguardo, è Valentino Rossi che rientra ai box, con la tuta gialla graffiata e impolverata. Un’immagine simile a un’altra, di qualche mese fa: un tunnel in fondo a un prato, un uomo di spalle che si allontana, e accanto, immobile, la Coppa del mondo.