Le città sono oggetti vaghi. Non sappiamo bene dove cominciano e dove finiscono. Esistono su più piani: esistono per esempio nello spazio fisico, ma sono anche spazi culturali, sono sedi amministrative ma anche paesaggi dell’anima. In ciascuna di queste dimensioni è difficile tracciare confini, per giunta i relativi spazi e i relativi tempi non coincidono mai davvero gli uni con gli altri. Tuttavia, per quanto vaga sia, ogni città nasce da un gesto di fondazione che è anche un gesto di delimitazione. È per esempio Romolo che traccia il solco, è anzitutto una determinazione in origine cosmica e sacra di limiti, è lo spazio sacro dell’acropoli o quello profano dell’agorà, la cinta muraria e la pianta, è per esempio la scacchiera ortogonale di Ippodamo di Mileto, i decumani longitudinali e i cardi ad essi perpendicolari che intersecandosi formano gli isolati rettangolari della città. Chi li tracciò a Napoli, dove sono ancora riconoscibili, voleva costruire una città ordinata: alla luce di quel che è oggi Napoli, dobbiamo ammettere che non c’è riuscito. Ma come non si attaglia più a Napoli l’ideale prima antico poi moderno della città ordinata, così non le conviene neanche la descrizione metropolitana, se almeno per metropoli si intende un indefinito non-luogo, uno spazio anomico e anonimo, spaesato, privo di identità storica, capace di inghiottire tutto ciò che ha fuori e intorno, qualcosa come la città continua di cui parla Italo Calvino ne “Le città invisibili”, nei cui sobborghi sempre uguali “si seguono le stesse frecce, si girano le stesse aiuole delle stesse piazze”. Napoli non è nulla del genere, e anzi coloro i quali amano Napoli di solito scusano i ritardi della città, la sua arretratezza, il suo profilo così poco moderno, così poco europeo e così affannosamente mediterraneo, proprio per la sfasatura rispetto ai tempi della storia e del mondo che metterebbe Napoli al riparo dal gelido disincanto metropolitano e le regalerebbe un supplemento di vitalità e di esuberanza.
Ma è un’illusione, soltanto un’illusione. E non c’è napoletano a disagio con la sua città che non rifiuti la fastidiosa retorica per la quale, contro le regole impersonali e astratte, la città saprebbe far valere la meravigliosa umanità e generosità delle genti del Sud. Non c’è nulla di più insopportabile, anzitutto per un napoletano, di sentirsi indorare la pillola in questa maniera. Dopo l’11 settembre, coloro i quali avevano fatto proprio l’aforisma di Gomez Davila secondo il quale “l’accusa più grave contro il mondo moderno è la sua architettura” non hanno perso tempo e si sono affrettati a sancire, insieme a molte altre cose, anche la fine degli edifici alti, la conclusione dell’età dei grattacieli. Temo che questa non sia per Napoli (né per il mondo) una chance. Silvio Perrella, critico letterario e scrittore, nel suo ultimo libro dedicato alla città accenna alla crisi del modello del Nord, quasi che Napoli e il cosiddetto pensiero meridiano possano rappresentare un’alternativa reale. Ma, per dirla sbrigativamente, Napoli ha anche i grattacieli. E vorrei dire: per fortuna ne ha almeno qualcuno. Il problema non è dunque la resistenza vitale e vitalistica al corso inarrestabile della modernità, come se tutto il mondo corresse verso la standardizzazione, l’omologazione, l’omogeneizzazione degli stili di vita (che sono slogan, più che concetti), mentre Napoli no: se d’altra parte questo corso è inarrestabile, non si capisce perché sarebbe un merito resistervi inutilmente, e se invece è arrestabile, che lo si arresti almeno, invece di restare a mezzo.
Questo restare a mezzo, che sembra una caratteristica di una città che Walter Benjamin diceva “non pensata per sempre”, in cui cioè non v’è nulla che sia definitivo, significa peraltro anche questo, che è ben difficile tirare a Napoli una qualunque linea di separazione. Pubblico e privato, storia e natura, tradizione e modernità, lingua e dialetto, superficie e profondità, locus amoenus e locus terribilis si mescolano inestricabilmente. Persino tra i vivi e i morti non c’è una separazione così netta, a giudicare dalla vitalità del culto dei morti. (Napoli è d’altra parte la città a più alto numero di preghiere – e bestemmie – per le anime del Purgatorio, quelle che non si sono ancora risolte a una destinazione finale).
Ma tra tutte le linee che non si possono tracciare, una in particolare manca, quella che dovrebbe infine separare la città dai discorsi che continuamente si fanno su di essa – e dei quali invece la città stessa sembra continuamente nutrirsi. In epigrafe a un fortunato saggio di Raffaele La Capria, “L’armonia perduta”, si cita Italo Calvino: “Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l’una e l’altro c’è un rapporto”. Poi La Capria prova, nel corso del saggio, a stabilire questo difficile rapporto. Sostiene infatti la tesi che quando, dopo la disfatta della rivoluzione giacobina del 1799, Napoli cominciò lentamente a scivolare fuori dalla storia, i napoletani presero a “fare i napoletani”. Il risultato di questa recita collettiva fu la napoletanità. L’aspetto più interessante di questo pensiero è che esso mette la napoletanità in conto non a un “di più” che la città avrebbe, ma a un “di meno”, qualcosa “di meno” che per il fatto di apparire come qualcosa “di più” costituirebbe anzi un’ostruzione, un ostacolo per la stessa città.
Non mi occupo della cronaca di questi giorni. Ma di quanti aggiungono a essa l’invito a non dimenticare che Napoli è anche la sua letteratura, la sua musica, la sua storia. Figuriamoci se non è così. Ma non è che Parigi o Londra abbiano bisogno di specchiarsi continuamente nel loro essere i parigini parigini e i londinesi londinesi per produrre cultura, musica, letteratura. E non è che lo sono meno per il fatto che manca loro questo specchio, per il fatto che non hanno questo specchio costantemente di fronte. All’opposto, questo specchio rimanda un’immagine falsa, non perché sia distorta, ma semplicemente perché la procura, perché continua a procurare a Napoli la consolazione, magari dolente ma comunque autocompiaciuta, di un’immagine.
Forse il dramma di Napoli sta proprio in questo, che il bilancio della sua storia si è così imbrogliato, che sono le stesse voci in attivo a dover essere ormai rubricate in passivo. Forse, il giorno in cui si potrà tirare una bella linea dritta e non ambigua tra le une voci e le altre, si risolverà il mistero di cui parlava Gramsci: come diavolo è che l’industriosità napoletana non si traduce mai in vera produttività? Poiché, a pensarci, essa sembra diretta innanzitutto alla più orgogliosa ma improduttiva delle attività, che consiste nel farsi un’immagine e un nome. Napoli ha l’una e l’altra, e sempre più rischia di avere solo quelli.