L’ analisi della storia politica della Chiesa italiana negli ultimi vent’anni che Marco Damilano ha proposto nel suo intervento su Left Wing due settimane fa, richiamata settimana scorsa dalla recensione del suo libro “Il partito di Dio” a firma di Ignazio Vacca, è certamente rigorosa sul piano storico e si può sintetizzare così: gli anni Novanta e il governo ruiniano della Chiesa italiana hanno portato a un mutamento di rotta e al sostanziale smantellamento della posizione montiniana, fucina, cattolico-democratica entrata in crisi già sul finire degli anni Settanta, a vantaggio di qualcosa che Damilano sembra temere e che descrive così: “classi dirigenti che non passano dalla selezione naturale, il benedetto circuito consenso-responsabilità, candidature e voto, ma che piovono dal cielo o dalle stanze della Conferenza episcopale, saltando a piè pari procedure più democratiche di elezione”.
Il punto cruciale di quella che Damilano interpreta come crisi dell’azione politica della Chiesa italiana sotto Ruini è ben individuato: “la Chiesa italiana incassa una fila di politici a caccia di benedizioni, come i Re Magi, in processione. Ma manca un’occasione enorme, storica: mettersi al servizio del Paese come agenzia di educazione alla democrazia”.
La prospettiva di Damilano pare chiaramente essere quella del cattolicesimo di stampo dossettiano: identifica con precisione una divisione all’interno della comunità ecclesiale italiana e si schiera nettamente con una delle due parti così individuate. Per dirla un po’ grossolanamente, il confine passerebbe tra Azione Cattolica e movimenti, cattolicesimo democratico e cattolicesimo integralista, “scelta religiosa” e affermazione identitaria, progressismo e conservatorismo, sinistra e destra. Da una parte si invocherebbe una presenza di e da cattolici nella società civile etsi Deus non daretur (riproposta in altri termini al recente Convegno di Verona per mezzo della citazione paolina “E’ meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo” ad opera del cardinal Tettamanzi), dall’altra si auspicherebbe una presenza nella società civile invitando tutti a vivere veluti si Deus daretur (con l’appendice consequenziale dell’alleanza con gli “atei devoti” nella prospettiva teocon). Un’altra significativa cartina di tornasole: da una parte si darebbe un’interpretazione del Vaticano II come evento di radicale rottura e novità rispetto alla tradizione, dall’altra si leggerebbe il Concilio come un evento che acquista il suo senso solo se letto in continuità con la storia millenaria della Chiesa, senza rinnegamenti né rotture.
Tale prospettiva – che tra l’altro credo sia condivisa da molti intellettuali cattolici schierati dall’una e dall’altra parte – coglie senz’altro qualche sostanziale verità, ma mi sembra che trovi un suo limite nel momento in cui dal campo dell’analisi politica tenti di passare a quello specificamente ecclesiologico. Se, infatti, è certamente vera l’osservazione di Damilano secondo la quale s’è persa nel corpo ecclesiale la capacità di formare una classe politica autonoma, responsabile e sinceramente votata alla tutela e all’incremento della democrazia, è anche vero che sia Paolo VI negli ultimi anni del suo pontificato, sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI lungo tutto il loro magistero hanno con forza ribadito come la Chiesa nella sua universalità, ma specificamente la Chiesa italiana, dovessero porre come propria priorità un’altra prospettiva, non antipolitica e forse nemmeno apolitica, bensì ulteriore rispetto alla politica: il nome più usato per definirla è stato “nuova evangelizzazione”.
In altre parole, penso che l’analisi di Damilano non riesca a cogliere un legame tra la strategia ruiniana di governo anche politico della Chiesa italiana e una strategia ecclesiale di respiro più ampio, prefigurata da Montini e poi divenuta vera protagonista del magistero di Wojtyla e del suo successore. L’idea dossettiana dei cattolici “come lievito nella pasta”, invisibili lavoratori in una vigna coincidente in tutto e per tutto con l’orizzonte di una democrazia solidale e giusta, sembra sottovalutare drammaticamente la portata della rivoluzione antropologica che i decenni ’60 e ’70 del Novecento hanno portato all’interno delle società occidentali. O perlomeno: l’interpretazione di tale rivoluzione data dagli ultimi pontefici (a cominciare proprio da Paolo VI, che nei suoi ultimi anni fu quasi angosciato da ciò che vedeva accadere fuori, ma soprattutto dentro la Chiesa) risulta del tutto divergente da quella di larga parte dell’intellettualità cattolico-democratica. Laddove qualcuno ha visto ineluttabili e positivi “segni dei tempi”, i papi dell’ultimo quarantennio hanno denunciato il pericolo tremendo di uno smarrimento della significanza stessa, per gli uomini contemporanei, del fatto cristiano.
Resta da discutere una questione, sulla quale la validità della lettura di Damilano ritorna prepotentemente in gioco: la risposta consenziente e persino entusiasta che gran parte del cattolicesimo italiano ha dato alla chiamata degli ultimi pontefici è stata efficace? Sta effettivamente muovendosi nella direzione di una rievangelizzazione della società? È capace di riannunciare Cristo agli uomini? Oppure la comunità ecclesiale ha eretto e sta continuando a erigere maldestramente nuovi muri, a tracciare nuove separazioni, anche nel suo stesso corpo?>