Il Medio Oriente, scosso dalle fondamenta nel 2003 dall’intervento in Iraq – oggi al centro dell’attenzione dell’elettorato Usa che si appresta alle elezioni di mid-term del 7 novembre – è in una pericolosissima situazione di stallo: sono stati distrutti gli assetti preesistenti ma non ne sono stati ricostruiti di alternativi sufficientemente robusti. Fermo a mezz’aria, il Medio Oriente deve quindi al più presto riavviare i motori e uscire dallo stallo se non vuole precipitare, appesantito dal carico di crisi che ha a bordo: quella israelo-palestinese, quella arabo-israeliana, lo scontro sciiti-sunniti, la debolezza delle istituzioni e dello spazio pubblico, l’incertezza dei confini e il conflitto tra le diverse identità – anche transnazionali – che lo abitano. Con la crisi pratica e concettuale dell’unilateralismo – e della conseguente diplomazia bilaterale – con sempre maggior convinzione e forza ritorna l’idea di una conferenza di pace internazionale, conseguenza necessaria dell’inevitabilità del multilateralismo e della supremazia della politica sulle armi.
Così, quindici anni dopo quella Conferenza di Madrid del 1991 saggiamente voluta da Bush padre dopo la Guerra nel Golfo – dove per la prima volta si parlarono faccia a faccia pubblicamente israeliani e palestinesi, peraltro ponendo in questo modo le precondizioni per il processo di Oslo – si riparla oggi di approccio multilaterale, onnicomprensivo e inclusivo. Se ne parla perché nel Medio Oriente è finita l’era americana: da soli d’ora in poi non potranno più avere una funzione regolatrice. Questo per una serie di fattori sia strutturali – come il declino del ruolo Usa nel mondo e l’ascesa della Cina – sia di breve periodo, come il tragico errore dell’intervento in Iraq, che ha premiato la soggettività politica degli sciiti e dell’islam politico radicale. Ironicamente, la prima guerra irachena del 1991 – una guerra per necessità – marcò l’inizio della solitaria regolazione Usa, mentre la seconda guerra irachena del 2003 – una guerra per scelta – ne ha segnato la fine. Tutto ciò è simboleggiato dalla forzata assenza di soldati Usa nel contingente Unifil II ora in Libano, e dalla contemporanea e inedita accettazione ai propri confini di truppe internazionali non americane da parte di Israele.
Con il declinare della potenza Usa nella regione oggi si ripropone duramente dunque l’irrisolto problema che impedisce la soluzione del conflitto arabo-israeliano: la sfasatura temporale che mina alla base lo scambio necessario per fare la pace. Per far finire tale conflitto, infatti, è noto a tutti – lo ha ricordato ancora pochi giorni fa David Grossmann alla cerimonia del 4 novembre per l’anniversario dell’uccisione di Rabin – come occorra scambiare terra in cambio di pace. Ma ecco il problema a cui trenta anni di diplomazia non hanno saputo dare ancora una risposta: mentre la terra occupata da Israele – come la Cisgiordania, il Golan e anche le Fattorie di Shebaa – si scambia in un arco di tempo comunque definito, la pace invece deve durare per sempre. Ovvero, è sempre ritrattabile con un atto di guerra. Dunque, occorre trovare delle garanzie – quelle che una declinante potenza Usa non può più assicurare – che la rendano certa e tangibile come la terra che viene scambiata.
Tali garanzie, oggi, non possono che essere in un processo politico multilaterale, inclusivo e onnicomprensivo: non tanto nel tempo (che può essere progressivo) quanto nello spazio (deve riguardare tutti allo stesso momento), perché nel nuovo Medio Oriente di oggi gli attori esterni vedono il loro impatto ridotto mentre sono le forze locali a essere in prima fila. Che la regione andasse in questa direzione lo avevano capito subito i sauditi, anche perché è proprio il loro senescente regno privato a essere comunque il primo nel mirino: degli Usa – ora resipiscenti – degli sciiti e dell’islam politico radicale. E così, avvertendo dopo l’11 settembre puzza di bruciato, l’allora principe ereditario Abdallah nel 2002 si fece addirittura promotore di un’iniziativa di pace – malgrado le parole “iniziativa saudita” in politica estera siano quasi un ossimoro – che poi fu fatta propria dalla Lega Araba il 28 marzo dello stesso anno a Beirut. A quel primo segno di cambio di scenario e di mentalità – che purtroppo non fu raccolto né da Israele né dalla comunità internazionale – ne seguirono altri, come i cosiddetti “accordi di Ginevra”.
Adesso il tema è sempre più sulle scrivanie delle cancellerie arabe e occidentali. Per l’incalzare della carneficina irachena, per l’insolubilità militare della questione del nucleare iraniano, per il marcire della condizione palestinese – in particolare nella Striscia di Gaza – per la necessità di stabilizzare il Libano, per la spinosità della questione sciita, per l’avvicinarsi della destabilizzazione di tutta l’area del Golfo. Sempre più obbligata sembra infatti la strada di dotare la regione di un foro dove tutti siano presenti, restaurando anche solo in questo modo una qualche influenza della politica. Certo, con l’aiuto di sponsor e garanti esterni, dall’Onu alle potenze globali che partecipano al “Grande Gioco”.
Al momento infatti l’organizzazione regionale più conosciuta, la Lega Araba, esclude le due potenze regionali più forti, l’Iran e Israele. E non ne esistono di sostitutive. Eppure il modello esiste, ed è perfino un’idea italiana (del 1991): costruire un foro regionale come la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel mediterraneo (Cscm) sul modello della più famosa – e di successo – Csce, che oggi è diventata Osce (da Conferenza a Organizzazione) e ha un ruolo nei Balcani tutt’altro che trascurabile. Esiste infatti non solo la necessità in termini politici generali – per il tramonto Usa nella regione – di costruire una sede multilaterale e inclusiva, ma anche la necessità più pratica e stringente di risolvere un pressante problema politico: sempre più si tende a internazionalizzare solo alcuni aspetti di una questione o di un conflitto (quelli magari su cui si appunta la residua attenzione dell’opinione pubblica occidentale). In mancanza di una regionalizzazione della soluzione, però, in questo modo si sbilancia pericolosamente il tutto. Come fa per esempio la risoluzione 1559, che internazionalizza un particolare aspetto del problema libanese (il disarmo di Hizballah) senza regionalizzare la sua soluzione (cioè risolvendo il conflitto israelo-palestinese o i rapporti Iran-Usa).
Questa asimmetria, nel vuoto di potere che si è creato in Medio Oriente, risulta sempre più pericolosa e destabilizzante, e aggroviglia in modo quasi inestricabile i problemi. Occorre trovare un modo per risolverla, e integrare i processi – pur utili – di confronto bilaterale con quelli con dinamica più regionale. Un problema in più per quei paesi, come il nostro, che hanno truppe in Libano. Allora appare chiaro come lavorare per una cornice regionale delle questioni della sicurezza non è solo un modo per adeguarsi a una nuova fase e per cominciare ad affrontare in modo efficace i numerosi nodi che strozzano e soffocano il Medio Oriente. E’ anche – forse soprattutto – la stipula di una polizza di assicurazione sul destino, politico ma anche militare, del nostro contingente di pace ora meritoriamente in Libano. ■