Esiste una disciplina sportiva nella quale fior di professionisti iperallenati e ben pagati partecipano e competono fianco a fianco con decine di migliaia di amatori e sportivi della domenica. È come se a San Siro, insieme al derby di serie A, si giocasse anche scapoli contro ammogliati, con le televisioni e la stampa interessate in egual modo a entrambe le partite. Questa disciplina è la maratona. La settimana scorsa si è corsa quella di New York che ha segnato l’ennesimo record di visibilità, quelle di Roma, Londra e delle altre capitali sono stabilmente in crescita da anni, e basta un giro per i parchi delle nostre città per avere idea di quanto correre stia diventando popolare.
Apparentemente correre è l’attività sportiva più semplice, naturale e democratica che esista al mondo: non servono particolari talenti tecnici o equipaggiamenti costosi, niente istruttori, circoli esclusivi e campi da prenotare. Tutto ciò che serve è fiato, testa, e spirito di sacrificio; per il resto si va e si corre. Fine. La perfetta metafora dello spirito meritocratico: non c’è alcun ostacolo sociale o economico a selezionare chi può correre e chi no; ciascuno parte in condizioni di parità, e una volta partiti, di fronte alla fatica, ai crampi, non c’è denaro e gerarchia sociale che tenga.
Messa così, però, della maratona è difficile innamorarsi, difficile cogliere nel passo del corridore il gesto tecnico sublime, l’estetica limpida di un tocco di Platini, o la classe di un guizzo di Valentino Rossi.
Eppure da un po’ di tempo correre è cool. Correre fa figo. Quelli che colgono al volo le tendenze lo sanno da un pezzo; e infatti a New York c’era mezza Radio Deejay che da alcuni anni ha fatto della maratona la Coppa Cobram aziendale; c’era Claudio Velardi, che ha chiamato “Running” la sua società di marketing politico; e c’erano semplicemente 3000 italiani a fare della nostra la rappresentanza più nutrita dopo quella dei britannici.
E’ l’estetica del sacrificio, l’orgogliosa vita da mediano di cui molti sembrano essersi innamorati? No, è più banalmente il fascino della semplicità. Ottenuta per sottrazione: prendete uno sport e sfrondatelo dal di più; togliete la preparazione tecnica, togliete le attrezzature costose e le strutture ad hoc, e lasciate solo un paio di scarpe, il sudore, il sacrificio, la fatica. Ecco, questo è il grado zero dello sport. La sua essenza, né più né meno.
Ma uno sport così è anche dannatamente banale e per nulla accattivante. E allora tornate ad aggiungere qualcosa, qualcosa di postmoderno, minimal e sofisticato insieme: un iPod, pantaloncini, maglia e scarpe sottili come veli e tecnologicamente all’avanguardia, qualche tabella di allenamento scaricata da internet, una mission edificante – completare quei dannati 42 chilometri – e soprattutto la possibilità di credere che facciate parte della metà sana del mondo, lealmente competitiva, e tecnologicamente consapevole. Ecco, avete ottenuto il running, cioè l’esatta metafora della democrazia postmoderna. Un mondo costruito e modellato quanto quello di ogni altro sport di massa, ma che si finge assolutamente autentico e alla portata di tutti. Accattivante come uno spot della Nike.
E allora tutti a correre quei 42 chilometri, a far finta di gareggiare insieme ai professionisti. Arriverete comunque ultimi, staccati di un paio d’ore da quelli bravi, ma volete mettere la soddisfazione di partecipare insieme a loro? Tutti a correre quei 42 chilometri e 195 metri che non sono, come molti credono di sapere, l’esatta distanza tra Maratona e Atene che l’oplita Fidippide corse nel 490 avanti Cristo per annunciare la vittoria sui Persiani, la vittoria della democrazia sulla barbarie, ma che sono invece la distanza necessaria, misurata a Londra nel 1908, perché la corsa olimpica, partendo dal castello di Windsor e arrivando allo stadio, potesse concludersi esattamente sotto il palco reale. Altro che Pericle.