Le ragioni e i confini della sovranità politica sono in tumultuosa trasformazione nel mondo di oggi. Sotto la spinta di fenomeni epocali – raggruppati in modo semplicistico e un po’ ideologico nel termine “globalizzazione” – tali ambiti sono mutati, anche se non tanto in modo formale (i confini degli stati sono sempre quelli) quanto in modo sostanziale e materiale. Esemplificazione massima di questo fenomeno sono appunto le elezioni americane, quelle presidenziali in primis, ma anche quelle legislative, come le recentissime elezioni di mid-term del 7 novembre: perché ciò che con il voto decidono solo gli elettori americani riguarda direttamente moltissimi altri cittadini del mondo. Per questo, dopo il grande – e positivo – cambiamento politico avvenuto negli Usa con queste elezioni, è utile interrogarsi sulle conseguenze che esse potranno avere non solo – e non tanto – per l’elettore americano, quanto per il mondo intero. L’elettorato “passivo” di queste elezioni – i cittadini non americani che pur non avendo potuto votare però concretamente e direttamente sentiranno l’effetto delle scelte politiche prodotte dal voto – si domanda dunque se ci saranno cambiamenti nella attitudine degli Usa verso l’esterno e il resto del mondo. Il punto più sensibile in questo senso è costituito dal Medio Oriente, per due ragioni.
La prima, perché proprio in questa regione è cominciato quel fallimento della politica estera dell’Amministrazione Bush che martedì scorso le urne hanno fatto emergere con durezza e senza appello. La seconda, perché anche l’Europa guarda al nuovo panorama politico americano attraverso la lente del Medio Oriente: proprio sul modo di affrontare questa questione essa si è infatti divisa e si è ridefinita in rapporto agli Usa e alla filosofia neoconservatrice, ed è probabilmente per la durezza di questa divisione che ha frenato – speriamo temporaneamente – il processo di integrazione europeo. Ed è esattamente ripartendo da qui, come dimostra l’iniziativa su Libano e Afghanistan del ministro degli Esteri Massimo D’Alema, che questa nostra Europa può ritrovare contemporaneamente – perché le cose coincidono – una propria iniziativa in politica estera e la giusta misura nel rapporto con gli Usa.
A questo riguardo un commentatore dell’autorevole quotidiano panarabo Al-Hayat ha scritto di aspettarsi con pessimismo “un ovvio cambiamento della politica Usa in Iraq e la continuazione della stessa politica, con aggiustamenti minori, riguardo i palestinesi, la Siria, l’Iran e il resto della regione”. Ed è proprio questo il cuore della questione: quanto cambierà dunque la politica degli Usa in Medio Oriente? Perché in un sistema parlamentare questi risultati porterebbero a un cambio di governo. In un sistema presidenziale, invece, possono portare solo a un cambio di politica. Per questo le dimissioni di Rumsfeld sono significative, come un primo passo in questa direzione. Se cambierà però anche la politica d’intervento e la filosofia che la ispira dipenderà non solo dal cambio di partito al governo del Congresso – del resto i democratici hanno sostenuto l’intervento in Iraq, e lo stesso Kerry spiegava di “voler parlare non di come andarsene ma di come vincere” –, anche perché pare difficile ipotizzare di far cambiare rotta alla corazzata Usa in Iraq come fosse un agile gommone. Certo, ci sarà un qualche disimpegno ma non un abbandono totale, magari un trincerarsi dietro fortilizi assediati da dove uscire armati fino ai denti: più o meno quello che è oggi la Zona Verde, l’unica rimasta in mano agli Usa, dove pure lì da qualche settimana piovono di media più di 30 razzi al giorno dalla guerriglia. Piuttosto tale mutamento ci sarà se cambierà la qualità dell’analisi sul Medio Oriente e il mondo contemporaneo, sulle reali forze e debolezze degli Usa – a partire dall’immagine che l’America ha di se stessa – e dunque la conseguente filosofia delle relazioni internazionali che ne deriva. E visto che oggi assistiamo al funerale politico e ideologico dei neoconservatori, sembra utile abbozzare schematicamente un’analisi serena sul loro contributo, perché solo un’analisi equanime e realista del passato può permettere ai successori di fare buona politica e di cambiare ciò che c’è da cambiare.
I neoconservatori hanno avuto un merito: dopo l’11 settembre hanno compreso che vivendo tutti in un mondo globale si era espansa la forza dell’ideologia rispetto ai fattori puramente economici – mentre invece la sinistra tradizionalmente soffre di economicismo – e dunque si sono posti il problema di intervenire non solo sul piano strutturale ma anche su quella che una volta si definiva “sovrastruttura”, a partire dalla dimensione della politica e dell’interazione culturale. Hanno cioè posto con forza all’Occidente il problema della rapidità e dell’efficacia, compreso l’uso del monopolio della forza. Del resto i neocon nascono negli anni Sessanta proprio in ambito progressista, seppure con una curvatura di forte soggettivismo che li porta a rompere con il loro mondo di origine. Che si sia trattato di un tema tutt’altro che peregrino lo dimostrano del resto le divisioni che sono riusciti a creare in Europa sulla guerra in Iraq. Ma è proprio qui che finisce la felice intuizione e comincia il drammatico errore: al momento di realizzare questa filosofia sul terreno, essa è diventata velleitaria. Rendendo dunque il mondo, e gli Usa, meno sicuri.
La politica estera Usa si è rivelata velleitaria e dunque controproducente per molte ragioni. Si potrebbe parlare dell’impianto in realtà manicheo dei necon, figlio della Guerra Fredda e inadeguato in un mondo complesso. Oppure della visione illusoria di un Medio Oriente visto in modo “orientalista” quando invece le cose stavano cambiando, a cominciare dal fatto che a guadagnarci da quel sommovimento sarebbe stata la soggettività sciita e l’islam politico radicale.
In realtà tutti questi errori di analisi, e la stessa proiezione degli Usa nel mondo, sono originati da un errore di analisi ancora più a monte, che nasce da come i necon e di conseguenza l’Amministrazione Bush hanno percepito la forza e il ruolo degli Usa nel mondo. Essi hanno basato tutto – ci si perdoni la semplificazione – su un assunto errato: che gli Usa fossero il centro del mondo e la prima potenza dominante, dunque in quanto tale attaccata dal terrorismo globale, e che quindi essa potesse difendersi dettando parametri politici per tutti dall’alto di una indiscussa supremazia. La realtà, è del tutto diversa. Anzi opposta. Siamo infatti in presenza non di una supremazia dell’America che tenderebbe ad accrescersi sempre più – fino a diventare, nella testa e nelle pagine di molti nostalgici intellettuali mitteleuropei del secolo scorso, come Toni Negri, un Impero tentacolare e sempre più anonimo e globalizzato – bensì del suo storico declino. Il secolo americano è stato il XX. Il XXI sarà quello cinese. Ci piaccia o meno, questa è la realtà. Gli oramai ventennali “deficit gemelli” Usa – di bilancio e di bilancia commerciale – si sono inevitabilmente strutturati in un “deficit di potenza”. Il terrorismo globale ha fiutato questa debolezza, e non certo la potenza e la supremazia, e per questo ha vigliaccamente attaccato.
Se dunque il nuovo assetto politico che vede i democratici sulla cresta dell’onda saprà partire da qui, e dunque fare i conti con il concetto di “declino” – più che con quello irrealistico di “supremazia” che non può che tradursi in una guerra velleitaria – allora si vedranno profondi cambiamenti politici. A partire dalla fine della pratica dell’unilateralismo e dalla sperimentazione di un più deciso multilateralismo (virata del resto già in atto, seppure in forme timide) per finire con una nuova visione del Medio Oriente, capace di restituire la sua complessità in una praticabile e perciò efficace proposta politica. Per esempio una conferenza regionale con tutti gli attori in campo, per quanto diversi e ostili essi siano, compresi Iran e Siria. Parallelamente ad una sull’Afghanistan, paese che fa parte comunque di un Grande Medio Oriente. Naturalmente ciò deve costituire un’azione di coronamento di un’iniziativa politica, complementare e non alternativa ad altri interventi di politica estera. Non deve costituire il ritorno a un ottocentesco e impotente “concerto delle Nazioni”, bensì essere parte di una strategia a due punte. Tale conferenza, da farsi insieme all’Unione europea, si potrebbe perfino concepire come non episodica, e strutturare sul modello della Csce.
Se tale rivolgimento analitico e presa di coscienza non dovesse avvenire, i cambiamenti potranno essere solo su aspetti secondari. Oppure diventare catastrofici, come la ventilata ipotesi di abbandonare alla disperata l’Iraq nel 2007 sancendone definitivamente la sua disintegrazione in tre o cinque parti (sciiti radicali di Moqtada As-Sadr, sciiti conservatori dello Sciri, sunniti, curdi, e la terra di nessuno di Baghdad) scagliandolo così un secolo indietro, cioè alla situazione precedente alla sua fondazione nel 1920. E dando ragione al pessimismo del mondo arabo, in particolare alla sua parte riformista, ben rappresentato dal commento comparso su Al-Hayat.