Come leggere “Il baco del Corriere”

Ci sono almeno tre modi diversi, per cavare grande sollazzo per alcune ore dalla lettura dell’ultimo libro di Massimo Mucchetti – “Il baco del Corriere”, edito da Feltrinelli al costo di 14 euro.
Il primo, naturalmente, è di andare al sodo della proposta avanzata dal vicedirettore ad personam del Corriere: dimostrato – e Mucchetti lo dimostra, eccome se lo dimostra, cifre alla mano di tutte le compagini proprietarie dai Crespi in avanti – che i padroni del Corriere di volta in volta sono stati assai più tentati dal controllo a fini di potere o magari per scaricarci perdite proprie, piuttosto che per potenziare editorialmente l’azienda, farle fare più utili e nominare direttori con la schiena diritta e garanti dell’indipendenza dai “poteri forti” che contano assai più della politica, in Italia – l’autore rilancia un’idea di Luigi Einaudi, rimasta senza eco nell’immediato dopoguerra. Allora, per il grande liberale italiano, occorreva porre riparo all’infamia che il fascismo aveva fatto compiere ai Crespi, espropriatori e normalizzatori del Corriere sottratto al grande Luigi Albertini, liberale antifascista della prima ora. Bisogna tornare alla doppia figura del direttore-garante, scrisse Einaudi. Inutile dire che le grandi famiglie italiane fecero orecchie da mercante. Dai Crespi ai Rizzoli, poi lo scandalo della P2 che vide sul Corriere l’ombra inquietante di banche deviate, poi il regalo agli Agnelli, che dopo la P2 pagano 90 quella Rcs che in tre anni vale 900, e poi tanto per strafare caricano su Rcs mille miliardi tra perdite e valore estratto dal proprio fallimento nella Fabbri. Poi la zigzagante gestione dei Romiti, ma quando ormai le banche sono all’assalto della Mediobanca di Cuccia, ecco che sotto le redini di Capitalia e Banca Intesa si giunge all’attuale patto di sindacato a 15, quello che si difende con successo dalla tentata scalata del 2005 intossicando l’Italia su un preteso trait d’union comune, oscuro e più temibile di quello di Gelli, che unirebbe vicende tra loro diversissime come quella di Ricucci e quella Unipol-Bnl. Così non va, scrive Mucchetti, ed è dura dargli torto: a partire dal fatto che risulta infatti pienamente sconfessata la martellante campagna del Corriere di Paolo Mieli, compiuta in tonante cooperazione con prodiani e margheritici, secondo la quale Gianni Consorte e il tentativo di Unipol su Bnl non erano nient’altro che il vero motore delle imprese compiute sui altri tavoli da Ricucci e Fiorani. Di qui, la proposta di Mucchetti: poiché è dura tornare al direttore-gerente di modello albertiniano, insieme responsabile del giornale per i suoi contenuti editoriali ma anche dell’impresa in senso aziendale, Mucchietti chiede che gli attuali azionisti di via Solferino si spoglino del proprio potere di indebita influenza sulla linea editoriale del giornale nonché del premio di controllo; e di conseguenza trasformino Rcs in una public company a contendibilità zero, introducendo tetti di possesso azionario bassissimi; affidando la scelta del direttore e dei dirigenti editoriali a un board of trustees della società civile come capita alla Reuters; infine attribuendo a un Azionista Speciale il potere, in caso di tentate scalate, di lanciare aumenti di capitale riservati destinati a rendere impossibile ogni avvento di proprietà “corsare”.
E’ una proposta volta a far discutere, perché Mucchetti sa per primo che non ha nessuna possibilità di essere adottata dagli attuali azionisti: essi l’anno scorso si difesero con una clausola di blindatura del patto scritta di suo pugno dal professor Guido Rossi, in quel caso nella veste di consulente dei patti blindati tra banche e famiglie, non in quella di saggista e intervistatore che da decenni propone la messa al bando dei patti di sindacato stessi. Personalmente, ritengo che la vera svolta sarebbe quella di mettere le banche fuori dai giornali, tornando al tentativo – fallito – del governatore Paolo Baffi, negli anni Settanta. Ma poiché risulta per tabulas che l’arcilodato Mario Draghi è favorevole a un ulteriore allascamento e non certo a una restrizione degli attuali vincoli per le banche a non detenere più del 15% del capitale in imprese non creditizie, credo che anche questa opzione abbia probabilità di verificarsi prossime allo zero. Di conseguenza, il futuro prossimo del Corriere dipende dalla lotta – in Mediobanca e per Generali – tra Capitalia da una parte, che tramite Tronchetti Provera ha messo alla porta nello scorso luglio l’amministratore delegato Colao, e Bazoli e la sua San-Intesa, attualmente in minoranza nel Corriere e dissenzienti sulla defenestrazione di Colao, ma in vantaggio sui romani nel risiko bancario sin qui realizzato e che, con l’avvento di Bernheim alla vicepresidenza di San-Intesa, strizza l’occhio a una Generali sempre più “prossima” a Bazoli e a Prodi. Prospettiva per sventare la quale da Geronzi c’è da attendersi faville. Come si vede, tutte vicende che – a conferma di quel che scrive Mucchetti – con il Corriere e la sua linea editoriale c’entrano nulla. Ma vabbè, siamo nell’Italia bancocentrica e nanopolitica.
Il secondo modo di trarre godimento dall’opera di Mucchetti è dilettarsi alla vera e propria “controstoria” dei meriti accumulati da Mieli in questi anni. Propongo al volo due paginette scabre, dalle quali cominciare se volete percorrere questo secondo sentiero. Pagina 154: “si deve pensare che noi del Corriere abbiamo pubblicato su due e non su sei colonne la notizia della transazione tra Banca Intesa e il commissario straordinario di Parmalat perché era un semplice accordo stragiudiziale e non anche per una pur parziale ammissione di colpa o di errore da parte della banca presieduta da Bazoli. Che trascuriamo i verbali piuttosto che le ville di Geronzi, oggetto di più di un procedimento giudiziario e tuttavia innocente come tutti fino a sentenza definitiva, perché le inchieste su Capitalia sono meno interessanti di quelle su Unipol. Che misuriamo le cronache e i commenti sul caso dell’equity swap Exor-Ifil perché Gabetti presidente di Ifi non sapeva che Gabetti presidente di Exor stava facendo rastrellare titoli Fiat per Gabetti presidente di Ifil, l’acquirente finale. Che riteniamo che Tronchetti Provera si sia dimesso per protesta contro le ingerenze del governo Prodi e non perché, dopo cinque anni, i conti dell’investimento in Telecom Italia non tornano…”. Andate poi a pagina 162 a proposito di ciò che invece il Corriere in questi anni mieleschi non è stato: certo, scrive Mucchetti, occorrerebbe “un’analisi fredda, e perciò feroce, sui debiti del gruppo Pirelli-Telecom, una ricognizione indiscreta dei rapporti tra banchieri giovani, come Passera e Arpe, e banchieri anziani, come Bazoli e Geronzi, un’informata ricostruzione degli affari del fondo Charme di Montezemolo e Della Valle”. Le grandi ambizioni bisogna potersele permettere, conclude sarcasticamente Mucchetti. E Mieli non vuole permettersele: perché saprebbe, sa Dio se saprebbe…..
La terza maniera di godere selvaggiamente del libro di Mucchetti è laddove esso integra e rilancia le tesi rigorose del suo precedente “Licenziare i Padroni?”: in cui aveva fatto il conto dei miliardi di valore bruciati a spese degli azionisti di minoranza dagli Agnelli in Fiat, dai De Benedetti in Olivetti, e giù per li rami. Che gli eredi Agnelli mentano per due volte al mercato e alla Consob, nell’estate 2005 in cui tutti sparano contro i furbetti, mentre Torino si riassicura il ruolo di azionista di controllo sulla Fiat prendendo per il naso migliaia di azionisti di minoranza e proprio quelle banche grazie al cui convertendo la società era andata avanti per tre anni, trova finalmente in Mucchetti una descrizione adeguata e una condanna che da allora siamo stati tra i pochissimi a pronunciare, cioè ad abbaiare alla luna senza che nessun grande giornale ritenesse opportuno occuparsene. E quanto a Tronchetti Provera, devo dirlo fuori dai denti: in realtà il libro è su di lui. Partono dalla security di Telecom, sotto lo schermo di provider disseminati ai quattro angoli del mondo, le incursioni spionistiche telematiche di cui Mucchetti e Colao sono vittime al Corriere – senza che Mieli per due anni faccia un colpo di telefono. Gli uomini di Tavaroli si presentano a Rcs dando chiara evidenza di conoscere i documenti che sono stati “spiati” dagli ignoti hacker, e naturalmente propongono a Rcs di mettersi al riparo firmando un pingue contratto con loro: Colao rifiuta, e si sa che fine abbia fatto. Ora si può pensare che la banda Tavaroli operasse in proprio come un cancro impazzito, tentando di taglieggiare e ricattare tante aziende e così dando lavoro alla propria costellazione di spioni privati alla Cipriani di E-Polis. Ma nessuno – nessuno – può essere così demente da pensare che Tavaroli facesse uno scherzetto simile all’insaputa di Tronchetti, in una società che edita il primo quotidiano d’Italia nel cui patto di sindacato siede Tronchetti in persona. Eppure, naturalmente, Consorte è stato travolto: Tronchetti controlla ancora Telecom, sta in Rcs e tutti i giornaloni confindustriali scrivono che è lui Tronchetti la prima vittima, della banda di spioni Telecom. Leggetevi allora il conto fatto rigorosamente da Mucchetti, dei 13mila miliardi di lire in valore bruciato da Tronchetti in Pirelli-Telecom in questo quinquennio, ricordatevi che Tronchetti è lo stesso che all’inizio della privatizzazione Telecom propose bel bello a Prodi di affidargliela senza pagare il becco di un quattrino, fondendo Stet con la “sua” Pirelli fresca fresca del disastro tedesco su Continental, e fatevi l’ennesima amara risata.
Eh sì, questi liberaloni delle banche e delle grandi famiglie – che tuonavano con Mieli sulla “rete oscura” che nel 2005 ne attentava i patti di sindacato – sono proprio come dice Mucchetti: “invocare la scuola di Chicago e il suo liberismo da parte loro suscita il legittimo sospetto che le teorie dell’accademia, brillanti e discutibili, siano piegate ai privati vantaggi di un gruppo assai ristretto”. Dicono che Mieli sia furibondo, del libro del suo vicedirettore ad personam. C’è da crederci. E non parliamo di Tronchetti. La cosa che sinora non si è potuto fare a meno di notare, è che Giuliano Ferrara ha appunto difeso il suo editore de la7, impugnando lo spadone contro Mucchetti: conoscendolo, e sapendo che Giuliano considera le regole del mercato fanfaluche per minchioni rispetto ai rapporti di potere reale, non mi stupisco e anzi la sua cannonata serve, se alza il dibattito. La cosa invece più triste, è aver constatato che le – timidissime – recensioni pubblicate sul Sole e sulla Stampa hanno su entrambe le testate visto la copertina del libro riproposta in versione censurata: espungendo ciò che campeggia non a caso sulla prima dell’opera, cioè il titolo del Corriere che si riferisce proprio a Telecom. Siamo allo sbianchettamento delle foto, come Stalin disponeva quelle dei comizi storici leninisti, a mano a mano che sparivano nelle Purghe i vecchi leader vittime dei processi di Mosca. Viva viva la grande stampa liberale, che ci ha difeso dall’avvento dai cattivi e che ci racconta ogni giorno le cose come stanno, nella guerra tra i poteri finanziari italiani.