L’ ultima volta che sono entrati in studio per incidere come band, nel 1992, Internet era ancora una setta per iniziati, il cd non aveva ancora messo fuori mercato il vinile e delle Torri Gemelle parlavano solo i turisti. Già provati da trent’anni di carriera e vita a “maximum R’n’B”, avevano consegnato la resa, intitolata “It’s Hard”, non senza l’onore delle armi: “Eminence Front”, “A Man Is A Man” e la conclusiva “Cry If You Want”, dal testo acuto e dolente, tenevano alta la bandiera di quel rock e di quella visione.
L’ultima volta che gli Who sono entrati in studio, John Entwistle non immaginava di avere solo dieci anni di tempo per dire tutto e Keith Moon se n’era andato già da quattordici, privando la musica moderna di un furore vitale quale oggi può essere eguagliato solo da una band al completo. Gli Who originali erano grandi in studio e devastanti sul palco, quattro twister brutali e potenti dediti alla conquista e alla demolizione. Con dolcezza urlata (Daltrey); con amara e intelligente ironia (Townshend); con pacata inquietudine (Entwhistle); con epilettica adrenalina (Moon).
Oggi, i sopravvissuti hanno più di sessant’anni: non hanno tenuto fede al proclama di “My Generation” e non sono morti prima d’invecchiare; anche se non si sono risparmiati pericolose derive, Townshend in particolare: l’ancora biondo Daltrey sfoggia il buon patto sottoscritto con il diavolo, mentre il chitarrista lascia affiorare sul volto errori e fantasmi anche recenti.
Nonostante – o forse, in virtù di – tutto questo, gli Who sono tornati in studio, sono tornati a incidere come band: in “Endless Wire”, aiutati da Pino Palladino al basso (già a lungo collaboratore di Townshend) e da Zak Starkey alla batteria (con gli Who dal ritiro del bravo e sfortunato Kenny Jones), hanno messo “nero su bianco” ben 19 tracce nuove, delle quali dieci costituiscono la mini-opera rock “Wire and Glass”, dalla novella “The Boy That Can Hear Music” dello stesso Townshend. La classe non è acqua e in “Endless Wire” la classe si sente. La capacità espressiva di Daltrey gli consente ora persino accenti alla Tom Waits; Townshend, amaro e disincantato, non manca di affondare la penna sui vizi e le deformità della società moderna, con la consueta intelligenza, qualche scheggia autobiografica e quella spontanea iconoclastia che ha fatto di lui uno dei padri putativi della prima ondata punk. Ma è ovvio che la potenza non è più quella dei tempi andati: “Endless Wire” ha momenti alti, ma nessun brano assurge al livello di inno generazionale, come fu per “My Generation” o “Won’t Get Fooled Again”. Certamente, non si può chiedere a un artista di sfornare un capolavoro a ogni passo; tuttavia sarebbe bello che i ritornanti Who riuscissero a dialogare con le ultime generazioni così come fanno con le precedenti. “Endless Wire” non ha gli occhi puntati all’indietro, si parla di come la rete sta cambiando la società, di terrorismo e fanatismi religiosi, di giovani e ambizioni. Sul piano sonoro, invece, si spazia tra “It’s Hard” (in effetti, l’album “immediatamente” precedente) e la produzione solistica di PT, con più d’una citazione: “Fragments”, brano d’apertura, è una costola di “Baba O’Riley”; “Mike Post Theme” ha un break simile a quello di “How Can You Do It Alone” (da “Face Dances”); “In The Ether” ha il respiro roco di “All The Best Cowboys Have Chinese Eyes” (album solo di PT del 1982); il banjo di “Two Thousand Years” arriva dritto da “Blue, Red and Gray” (“The Who By Numbers”, 1975). Altri passaggi rimandano alle colonne portanti della discografia Who, “Tommy” e “Quadrophenia”, senza lasciare l’impressione di una rimasticatura: stile, nostalgia e orgoglio si confondono in un sound maturo e raffinato che tuttavia anela di continuo all’esplosione, a quel sussulto fisico di rabbia e sudore che era la firma della band.
Forse, una sezione ritmica meno tecnica e diligente e più intuitiva e creativa (qualcuno come Joey Jordison degli Slipknot alla batteria e Nick Oliveri al basso, per capire) potrebbe permettere agli Who di rinascere appieno e mettere nella giusta evidenza quanta energia, lucidità e talento ci sono ancora in questi due veterani. Capaci di coniugare l’ottimismo dello spirito con il pessimismo delle rughe.