Quando insegnavo filosofia nel liceo scientifico di Amalfi, sette o otto anni or sono, ricordo che i ragazzi mi confidavano di nascondere in fondo all’aula, sotto un mucchio di giacconi, una telecamera, con la quale immortalavano le corbellerie di certi loro professori. Non mi confidavano di piazzare la camera anche in bagno, ma nihil obstabat. E, certo, non avevano il videofonino, e la telecamera era ancora piuttosto grossa e ingombrante: la cosa tuttavia funzionava lo stesso. Se torno al tempo della mia prima supplenza, a Scafati, quasi dieci anni fa, ricordo le registrazioni audio di urla e colpi belluini contro i muri, resi ovviamente con il docente impotente in aula. Torno ancora più indietro, a quando ero studente: allora circolavano i nastri che compagni più esperti di me incidevano con le voci delle fanciulle cadute nella loro abile rete. Altri amici giravano con foto delle loro parti intime nel portafoglio: la cosa era cominciata con spropositati fotomontaggi, ma poi qualcuno aveva optato per il reality. Io, dal canto mio, mi limitavo in quegli anni a registrare con una tacca sul banco il numero di volte in cui il mio professore di italiano ripeteva “non so se rendo l’idea”. Gli facevo domande apposta. Non mi interessava la risposta, ma riempire il banco di tacche. Oggi debbo domandarmi se non fosse già in corso, da tutti inavvertita, la “mutazione etologica” della quale parla lo scrittore Antonio Scurati nell’articolo apparso sabato sulla Stampa, a proposito dei fatti accaduti a Torino nel giugno scorso (e finiti in questi giorni sui quotidiani), quando quattro studenti hanno picchiato un compagno disabile, filmando il tutto col telefonino. Scurati vede la “mutazione etologica” nel fatto che i quattro hanno picchiato il compagno al solo ed esclusivo scopo di filmare l’impresa. Finché picchiano, niente di strano: è ordinario bullismo; ma che picchino per filmare, questo è troppo: questa è una mutazione. Scurati, infatti, la interpreta così: i quattro “hanno perpetrato e vissuto un gesto efferato come uno pseudo-evento, un accadimento creato appositamente per i media”. Se la parola “appositamente” ha un senso, questo significa che secondo Scurati se non avessero avuto il telefonino non avrebbero picchiato nessuno. Poiché i giornali hanno scovato in rete (non era difficile) non pochi filmati analoghi, c’è da chiedersi se anche questi altri episodi di bullismo sarebbero accaduti ugualmente in assenza di google e youtube. Scurati deve crederlo, e posso capire che perciò si agghiacci. Io ho un’opinione diversa (e soprattutto ho qualche dubbio di principio nei confronti dei periodi ipotetici del terzo tipo), ma prima di esporla darò un’occhiata alla cornice in cui Scurati inserisce la sua disamina. In essa è infatti tratteggiata una società non solo sessualmente disinibita, ma che incita alla sfrenatezza sessuale, una società che “pencola tra idolatria e mercificazione” del corpo, in cui inoltre non si insegna più il senso della morte e della sofferenza, e il tragico è rimosso; una società in cui, infine, l’impassibilità e l’indifferenza verso la sofferenza altrui è addirittura canonizzata, intronizzata nella figura (che più passiva non si può) del telespettatore.
Ecco quello che definirei un genere di analisi finto profondo. L’analisi suona profonda perché vi si parla di morte e di sofferenza e di tragedia – e chi non si compunge dinanzi a queste parole? – ma è finta perché non si impegna in alcuna analisi accurata di dati e non fornisce alcun raffronto fattuale. Quando Scurati (o chi per lui: ce ne sono molte di simili analisi) avrà dimostrato che nelle società sessualmente inibite certe cose non succedevano, o che dove il corpo non è idolatrato o mercificato è meno mortificato che qui da noi, o che il bullismo da telecamera è spaventosamente in aumento, io prenderò in più seria considerazione il suo furente agghiacciarsi. Fino ad allora, di siffatte analisi riterrò solo questo: che mettono l’estensore nella posizione la più comoda e socialmente rispettata, quella del pensatore pensoso dei destini del mondo; che allo scopo tratteggiano con grande agilità di penna enormi cambiamenti epocali, poiché infatti: che pensosità sarebbe se non fosse in corso un cambiamento epocale? E in effetti, c’è qualche altra ragione per la quale Scurati parla di “mutazione etologica”, se non che è da troppo poco tempo che qualcun altro di cui ci si ricorda ancora ha parlato di “mutazione antropologica”? La mutazione antropologica come mutamento epocale non era più disponibile, ed ecco bell’e inventata quella etologica. In questa maniera, avete difficoltà a supporre che nelle redazioni dei giornali siano già pronti articoli sulle mutazioni biotecnologiche, o su quelle psicosociologiche, o ancora su quelle ecosistemiche? (Oppure: vi ricordate quando, non molti anni or sono, diversi casi di nonnismo balzati insieme alla ribalta furono associati a mutamenti altrettanto epocali dai sociologi di turno? Ma oggi: che fine ha fatto il nonnismo, e il relativo mutamento?).
Questa trovata della mutazione etologica sarebbe già sufficiente a buttar via l’articolo, ma vengo comunque al punto al quale alludevo in apertura. Non bastava picchiare: bisognava riprendersi col videofonino durante il pestaggio. È agghiacciante, dice Scurati, è abnorme. Può darsi. Ma in questo modo lo scrittore mostra di ignorare in primo luogo che l’epoca felice in cui la violenza era tutta e senza distinzione occultata, considerata un disvalore e perciò nient’affatto esibita, quest’epoca non è mai esistita (in caso contrario, la indichi); e in secondo luogo che l’uomo ha già prodotto violenza al solo fine di specchiarsi in essa, e questo è accaduto nella dimensione del rituale: in una dimensione, cioè, che è costantemente riscontrata nei gruppi umani, dalle origini ai giorni nostri. Il che ci assicura che forse il mutamento in corso non sta dando luogo ad alcuna “subspeciazione”, come pretende invece Scurati. C’è poi un’altra cosa, che mi consente di esibirmi in una proposizione metafisica e di indossare così a mia volta i panni del pensatore pensoso. È che non c’è presenza che non si assicuri grazie alla ripetizione. Se una cosa non si ripresenta nella rappresentazione, non permane e dunque non è. Se non c’è un luogo in cui la mia presenza ritorna, vuol dire che sono morto. E in ciò internet, youtube o la tv non hanno colpa alcuna, casomai ne ha il tempo. Per dirla ancora più chiaramente: s’è inventata la scrittura per questo. Scurati dovrebbe saperlo: se la sente di escludere da una qualunque sua pagina (non è uno scrittore, dopotutto?) che essa non sia abitata dall’esigenza non dirò di eternarsi, ma almeno di ripresentarsi ad occhi altrui e insomma di esserci? Tanto poco lo si può escludere, che sospetto stia lì la motivazione più vera del suo articolo di sabato sulla Stampa. E non c’è bisogno neppure di supporre che sia in corso una mutazione epocale nel mondo delle lettere: è ordinaria amministrazione.