Ségolène Royal in Francia e David Cameron in Gran Bretagna sono in testa a tutti i sondaggi. I grandi giornali internazionali ne parlano come di autentici leader riformisti e innovatori, venuti su dal nulla grazie alla loro personalità e al loro carisma. Ma soprattutto grazie alla loro determinazione nell’infrangere i tabù della vecchia sinistra socialista (Ségolène) e della vecchia destra conservatrice (Cameron). Giovani carini e fino a ieri pressoché disoccupati, incarnazioni viventi della rivoluzione modernizzatrice prossima ventura. Tali ce li raccontano e tali li possiamo anche credere. Tutto sta a capire di quale rivoluzione si parla.
Certo a un lettore distratto, che nulla sapesse della storia della Francia e della Gran Bretagna, che mai avesse sentito parlare di partiti socialisti e partiti conservatori in vita sua, tutto questo potrebbe apparire normale. Nessun problema se la prima è una socialista francese e il secondo un conservatore britannico (come dire quanto di più simile a certe barzellette anni Ottanta, di quelle che cominciavano: ci sono un comunista russo e un industriale americano…). La stampa mondiale li elogia, per le stesse ragioni e con gli stessi argomenti.
Nessun problema se la brava Ségolène, prima di rilasciare qualche dura dichiarazione sulla sicurezza o sugli insegnanti scansafatiche, per l’amministrazione della sua regione proponeva il “bilancio partecipativo” e simili fregnacce no-global, o se ancora poche settimane fa lanciava l’idea di giurie popolari dal sapore vagamente maoista per giudicare la virtù dei politici. Sorvoliamo sulle sue idee in materia di globalizzazione, che ricordano assai più Vittorio Agnoletto che Willy Brandt, e prendiamo invece l’ultimo numero dell’Economist (ma potremmo citare anche infinite, analoghe paginate del Financial Times, fino a non poterne più). Il prestigioso settimanale britannico continua a presentarla come il leader riformista destinato a modernizzare la senescente politica francese. Quella politica, per capirci, rappresentata dal suo avversario alle primarie Dominique Strauss-Kahn (che ha pure il difetto di capire qualcosa di economia). Nello stesso numero, l’Economist loda pure la capacità di David Cameron di girare attorno all’avversario (Gordon Brown, un altro che di economia capisce qualcosa) senza offrire punti di riferimento, leggero come una piuma e inafferrabile come un camaleonte. Il fatto che Cameron e i suoi spin doctor in questi giorni abbiano rinnegato la Thatcher e perfino Churchill in favore della columnist Polly Toynbee e delle sue posizioni ambientaliste e radicali, evidentemente non costituisce titolo di demerito nemmeno per la Bibbia del liberismo britannico. Quello che conta sono i tailleur di Madame Royal e la bicicletta del giovane Dave. Il loro successo, anche sulla stampa italiana, è spiegato allo stesso modo: carismatici, moderni e abilissimi nel gestire la loro “campagna mediatica”. Che è un po’ come spiegare il successo di Berlusconi con la sua capacità di riuscire bene in tv. Per carità, conta anche quello, si capisce. Ma il fatto di possederle, le tv – nel caso di Berlusconi – forse un po’ aiuta. E così crediamo che aiutino le Ségolène, i Cameron e i Veltroni nostrani una certa benevolenza da parte di coloro che i giornali li editano e li finanziano. O no?
Questa è la ragione per cui proprio non riusciamo a sopportare la solfa del leader moderno, che parla di valori, che incarna un nuovo modello di politica “leggera”. Quella nuova politica che con definizione sublime Paolo Borioni – qui, nelle pagine di analisi e commenti – ha paragonato a una musica di sottofondo da ascensore d’albergo.
C’è però una differenza enorme, tra l’Italia di oggi e paesi come la Gran Bretagna e la Francia. La differenza sta nel fatto che né in Gran Bretagna né in Francia abbiamo letto sui giornali le conversazioni telefoniche dei capi dei locali servizi segreti, per fare un esempio.
Per farne un altro, nell’Italia di oggi si discute seriamente di brogli, su giornali e tv, a sette mesi dalle elezioni, attorno alle tesi di Enrico Deaglio. Attorno a un’inchiesta, sobriamente intitolata “Uccidete la democrazia!”, che parte dalla differenza tra il risultato effettivo e le previsioni dei sondaggi – anomalia confermata (ma tu pensa) da tutti i maggiori esperti di sondaggi – e concentrata in particolare sul numero delle schede bianche, eccezionalmente basso. Ma senza tener conto del fatto che alle ultime elezioni le schede erano due (e non tre, come nelle precedenti), che si era tornati dal maggioritario al proporzionale (quindi con una superiore “offerta” di partiti sulla scheda) e che la campagna elettorale era stata tesissima e trascinante, su tutti i mezzi di comunicazione, come non accadeva da tempo. I dati sulle schede bianche nelle ultime elezioni svoltesi con sistema proporzionale, quelle del 1992, non sono significativamente più alti. Eppure da giorni continuiamo a discutere di una simile inchiesta, che accusa Berlusconi di avere truccato le elezioni attraverso un software capace di assegnare al suo partito le schede bianche, dimenticando che i risultati ufficiali non sono conteggiati attraverso i computer del Viminale: i dati ufficiali sono conteggiati sui verbali, nelle sedi proprie, con carta e penna.
Naturale che Berlusconi, oltre a ringraziare sentitamente Deaglio, torni a chiedere il riconteggio di tutte le schede. Ma c’è un sacco di altra gente che in questo momento si sta stropicciando le mani, soprattutto tra i tanti aspiranti leader attualmente in panchina. Giovani carini e disoccupati come Veltroni e Casini, che hanno puntato tutto sul fallimento delle uniche ipotesi in campo per rendere finalmente stabile e governabile il bipolarismo italiano: l’unione tra Ds e Margherita, e quella tra Forza Italia e An. Mentre più anziani commentatori e direttori di giornale non attendono che l’esito di quest’ultima partita, quella che si gioca adesso attorno al ridicolo broglioncello elettorale, per gridare all’emergenza democratica e scrivere le due parolette che già sentono nella penna: Grande Coalizione. Magari dentro un editoriale sulla leggerezza della politica, affiancato a una corrispondenza da Londra o da Parigi. E con un bel titolo sul nuovo che avanza, per dare un po’ di coraggio allo sfiduciato lettore italiano.