Quattro a uno. Juventus quattro, Lecce uno. Questo articolo potrebbe anche concludersi qui, ché quello che c’era da dire se lo sono detto sabato le due squadre in campo. Il resto è come il jazz, se non lo capisci da solo, non lo si può spiegare. Ma proviamoci lo stesso. Sabato pomeriggio, l’anticipo di serie b, prevedeva l’incontro Juventus-Lecce, appunto. Ovvero la principale vittima della palingenesi morale del calcio contro il suo storico accusatore, Zdenek Zeman, allenatore dei pugliesi. Ovvero i brutti sporchi e cattivi contro i buoni. Meglio ancora, i brutti sporchi e cattivi, puniti e retrocessi, privati di un gran numero dei loro campioni, contro il pioniere dei buoni, pronto a prendersi la più ghiotta delle rivincite. Risultato finale, come abbiamo detto, quattro a uno per i cattivi, dopo avere rimontato dallo zero a uno.
A dimostrazione che non si trattava di una partita come tante altre, nel dopo gara alcuni bianconeri, tra i quali il dottor Agricola, ne hanno approfittato per togliersi qualche manciata di sassolini dalle scarpe, e Zeman si è risentito, decretando la morte dello stile Juve – qualunque cosa esso sia mai stato.
Dimenticate la retrocessione, dimenticate i punti di penalità e la camera di conciliazione del Coni. Dal punto di vista strettamente sportivo la questione è stata risolta definitivamente, a favore della Juventus, nell’unica sede idonea, il campo. Chi vince ha ragione, per l’ovvio meccanismo su cui si basa qualunque competizione sportiva: scopo del gioco è stabilire chi vince, punto e fine. Una partita non è un sacco di cose: non è un concorso di bellezza, non è una gara di popolarità e non è nemmeno un pranzo di gala. Se sembra un’idea medievale, è perché è esattamente questo. Un’ordalia su un prato verde, o su altra superficie acconcia, da fischio iniziale a fischio finale. Poi ci mettiamo sopra una sovrastruttura cerimoniale per rendere il tutto socialmente accettabile e non far scorrere davvero il sangue (pugilato e sport di contatto esclusi) ma se Eddy Merckx – uno che andava in bicicletta, non uno che picchiava la gente – era chiamato “il cannibale”, e non “la collegiale”, un motivo ci sarà pure. Che fare dunque quando all’ordalia sportiva vincono i cattivi? Ci si complimenta con loro e si aspetta la prossima volta, e nel frattempo si chiede conto ai buoni della loro cronica inadeguatezza, ché se fossero all’altezza delle loro alate chiacchiere i brutti sporchi e reprobi non sarebbero così popolari.
Se la superiorità morale – magari non autoproclamata – fosse una responsabilità ulteriore, e non il più comodo degli alibi, magari alla prova dei fatti non vincerebbero sempre quelli sbagliati, quelli che si ritrovano ad avere qualcosa da dimostrare, mentre i buoni sono già soddisfatti del proprio stato di grazia.
Ma in fondo anche questo è un equivoco. Se è vero, come dice la canzone, che love is not a victory march, è vero anche il contrario, che non c’è un grande spazio per i cuori teneri sulla strada della vittoria. Essere vincenti è un lavoraccio, richiede impegno, abnegazione, talento, e un lungo pelo sullo stomaco. E magari anche la lucidità per capire quando è il caso di cambiare aria, qualità che unita alle altre conduce verso una carriera lunga e prospera. Per saperne di più chiamate il Real Madrid, e chiedete dell’allenatore.
Certo ci sono le eccezioni. I campioni che trionfano senza averne l’aria, quelli ai quali la vittoria cade naturalmente tra le braccia. Campioni d’altri tempi, come si dice di tanti contemporanei, perché gli altri tempi sono sempre ricordati con bucolica nostalgia. Platini, Van Basten, Sugar Ray Leonard, Michael Jordan, Roger Federer. Ma si tratta o di grandissimi attori, che tamponano con la cipria il copioso sudore, o dei più crudeli e antisportivi tra tutti, che sbattono in faccia agli avversari, oltre alla loro classe, quello che in alcune discipline è considerato il peggiore affronto che si possa fare. Lo scarso impegno.