C’ è un passaggio dell’ultima lettera di Piergiorgio Welby ai direttori di giornale che a mio avviso merita attenta considerazione. Lo riporto qui, e provo poi a imbastirci una piccola riflessione: “Addio, Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori!”.
In questo passaggio non si parla di eutanasia. D’altra parte, il “caso” Piergiorgio Welby non è un caso di eutanasia. Marco Pannella ha dichiarato che si tratta in realtà “di un caso clamoroso e infame di accanimento terapeutico”. Sulle pagine del Corriere della sera, Roberto Mordacci, docente di filosofia morale all’Università San Raffaele di Milano, ha spiegato che per staccare la spina, nel caso di Welby, non c’è bisogno di legalizzare l’eutanasia. Basta l’articolo 32 della Costituzione: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”. Nessun paziente può essere sottoposto a una cura che egli rifiuta e che giudica essere un accanimento terapeutico nei suoi confronti (salvo ovviamente i casi in cui è di danno a terzi). È importante sottolineare che è il paziente che giudica, finché è lucido, se sottoporsi o meno a una cura, e dunque anche se un certo trattamento medico sia accanimento terapeutico oppure no. Perciò Mordacci può ricordare che anche papa Giovanni Paolo II, al tempo del suo secondo ricovero al Gemelli, chiese di essere lasciato andare, chiese di non essere attaccato a quel respiratore artificiale dal quale Welby vuole disperatamente essere staccato: “Il paziente può rifiutare l’espropriazione della fase finale della vita, il sequestro della malattia per mezzo delle macchine. È un delirio di onnipotenza medico pensare che anche sospendere la cura, in quelle condizioni, sia un ‘atto’ che uccide!”. E siccome nel caso di Welby non basta staccare la spina, bisogna anche somministrare un sedativo che eviti la morte terribile per asfissia ma che inevitabilmente abbrevia la vita, Mordacci aggiunge: “Pure Pio XII, parlando agli anestesisti nel ‘57, ammetteva la possibilità di dare palliativi per ridurre la sofferenza anche se si prevede, ma non si desidera, che comportino l’abbreviazione della vita”.
Queste precisazioni sono importanti. Capita di leggere dichiarazioni come quelle dell’indispensabile ministro della Solidarietà sociale Ferrero, il quale afferma: “Si deve impedire l’accanimento terapeutico. Io sono favorevole alla eutanasia”, che se non è un infelice riassunto di un più ampio ragionamento, è una pura e semplice stupidaggine, come se essere contrari all’accanimento terapeutico comportasse qualche favore verso l’eutanasia.
Ciò detto, e considerati irricevibili tutti gli interventi che a partire dalla contrarietà verso l’eutanasia sostengono che a Welby non può essere “staccata la spina”, rimane quella frase che ho citato sopra. Essa mi consente di proporre una breve considerazione sull’eutanasia propriamente detta, che viene richiesta in nome dell’incomprimibilità del diritto di ciascuno a disporre di sé, della propria vita come della propria morte, e rifiutata in nome dell’indisponibilità del bene primario della vita. Ora, comprimere un diritto individuale, a meno di ingiustificabili paternalismi, non è una faccenda da poco: bisogna appellarsi a un bene maggiore, oppure negare che sia un diritto. È altresì sperabile che lo si faccia su un terreno di discussione razionale. Mordacci ha il merito di farlo. Dopo essersi detto favorevole all’accoglimento della richiesta di Welby, per le ragioni sopra citate, mette da parte la nozione di sacralità della vita, perché “può essere fuorviante”, ma si dice contrario all’eutanasia perché comporta “una scissione della persona dalla vita. Si pensa di affermare la propria libertà cancellandone la base, il proprio corpo. È l’argomento di Kant contro il suicidio: chi si uccide pensa alla propria libertà come fosse disincarnata, si scinde dal proprio corpo e così usa se stesso come un mezzo”. Mordacci ha argomentato più distesamente il suo punto di vista in un bel libro, “Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica” (Feltrinelli 2003), che si conclude con l’abbozzo di una teoria etica laica del rispetto per le persone – ivi comprese le persone che noi stessi siamo. Semplificando al massimo: ciascuno di noi deve un rispetto assoluto non solo agli altri, ma anche a se stesso. Dunque: no al suicidio e (per la stessa ragione) no all’eutanasia.
Allora io prendo la “Metafisica dei costumi” di Kant. A parte ogni altro non irrilevante aspetto del problema – per esempio relativo al modo in cui i doveri morali, posto che siano tali, debbano essere recepiti nella sfera giuridica, oppure alla pluralità di prospettive morali nient’affatto convergenti su questo punto – mi interessa misurarmi direttamente con l’argomento di Mordacci. Ora, Kant scrive, è vero che non si può disporre di se stessi come “puro strumento per un fine arbitrario” (tale è per Kant, per esempio, la cessazione del dolore). Ma, nella proposizione kantiana, l’accento non cade affatto sul corpo ridotto a puro strumento, ma sul fine arbitrario. Il fatto è che del corpo come strumento si può e si deve disporre, secondo Kant, se il fine non è arbitrario, ma è fondato imperativamente sulla legge morale. È per questo che Kant può dedicare un breve paragrafetto alla forza richiesta dall’esercizio della virtù, a cui dà il nome di apatia. Temo perciò che Mordacci non possa trovare in Kant l’appoggio che cercava. L’uomo di Kant non solo non ha il diritto di suicidarsi, ma ha anche il dovere di essere apatico, di non “sentire” cioè, nell’esercizio della propria virtù morale, il proprio corpo (non i dolori, e nemmeno le gioie). Non è chi è favorevole all’eutanasia a scindere dunque la persona dalla vita, ma chi è contrario.
Rileggete infatti la frase di Welby. È proprio a Kant che Welby si sta rivolgendo. O meglio: a chiunque ritiene di poter elevare sopra l’umanità dell’uomo una inflessibile personalità morale per rispetto della quale ogni genere di sofferenza deve essere patita. La qual cosa riesce tanto più illimitatamente crudele, quanto più è assoluto il valore che deve essere rispettato.
Con ciò io non ho dimostrato che il valore della persona non sia così assoluto da dover essere rispettato anche a costo di trattare il proprio corpo come “lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori” (eh già, c’è anche questo particolare: non è detto che i valori di Mordacci o i miei siano quelli di Welby, sicché bisognerebbe almeno dimostrare che i valori per la realizzazione dei quali Welby deve fare apaticamente del proprio corpo strumento di difesa o di realizzazione siano strettamente indispensabili al vivere civile e alla collettività intera: una dimostrazione invero assai ardua).
Vedo però la tortura che quell’elevazione all’assoluto può infliggere; trovo poi che non sia casuale che ad infliggerla sia chiamato lo Stato; penso inoltre che in ciò lo Stato sembra conservare ancora quel potere sovrano che anticamente si manifestava nel diritto di vita e di morte (sia pure, oggi, al contrario: non come diritto di dare la morte, ma come dovere di mantenere in vita); mi accorgo infine che tra la disponibilità e l’indisponibilità individuale del proprio corpo e della propria vita non sta soltanto la sublime legge morale di Kant, ma sta il potere dello Stato, stanno le macchine, stanno i tubi del respiratore – stanno magari anche assistenti spirituali che contribuiscono non a confortare una vita, ma a tener su il fantoccio della personalità morale; concludo, per tutto questo, che non ho più molti dubbi: un po’ meno sovranità, un po’ meno fantocci, e un po’ più di comune umanità.