Il governo Prodi vara una manovra finanziaria imponente e controversa, ottiene la fiducia dalle Camere ma solo grazie al voto dei senatori a vita, deve fronteggiare il montare di una protesta popolare diffusa e forse inevitabile, ma anche il punto più alto di un’offensiva guidata da tutti i quotidiani e i settimanali del gruppo Espresso, assieme a tanti altri autorevoli commentatori sparsi un po’ ovunque. Il primo obiettivo degli assalitori è Tommaso Padoa-Schioppa. Una figura chiave degli equilibri politici del paese: il ministro tecnico dell’Economia, garante presso i partiti politici per conto di quel quarto partito della comunità finanziaria di cui già parlava De Gasperi, agli albori della Repubblica. Per quel variegato, ramificato e contraddittorio milieu di cui Carlo De Benedetti tenta ora di porsi a capo, il ministro dell’Economia è oggi poco meno di un traditore.
I due maggiori partiti del centrosinistra aprono ufficialmente la fase congressuale. Nella primavera del 2007 dovrebbe dunque prendere finalmente avvio la costruzione del Partito democratico, passando per una fase di transizione che non potrà non cominciare da un processo di integrazione guidato dall’alto – e da dove, se no? – attraverso forme di cooperazione rafforzata sempre più strette. Così da scandire ordinatamente, lungo tutte le articolazioni nazionali e locali dei due partiti, una graduale cessione di sovranità da parte di queste articolazioni verso gli organismi comuni che via via dovranno essere costituiti, e che in una prima fase non potranno che avere carattere federativo. Prima occorrerà costituire congiuntamente, a tutti i livelli, le sedi di decisione comuni, e solo a quel punto i corrispettivi organismi dei due partiti – avendo partecipato alla costruzione di quelli – potranno sciogliersi o in qualche modo confluire al loro interno. Le formule, i tempi e i modi potranno essere ovviamente i più diversi, ma certo non si può immaginare un giorno e un’ora x in cui qualche professore di scienza politica si rechi presso la federazione dei Ds di Siena o quella della Margherita di Palermo, invitando i presenti ad abbandonarne i locali a mani alzate e senza opporre resistenza. Un sogno coltivato a lungo dalle menti migliori della generazione dei Mario Segni e dei Michele Salvati, ma che negli ultimi tre lustri ha trovato un solo autentico sostenitore nel mondo politico. Un sostenitore il quale, peraltro, non fa più il segretario di partito da molto tempo, essendo impegnato a fare il sindaco di Roma. E’ su di lui, non a caso, che ha puntato Carlo De Benedetti per scardinare gli attuali equilibri nel governo e nel nascente Partito democratico. E ci hanno puntato pure molti altri, in questi anni tormentati, chi con maggiore e chi con minor fortuna.
Questo piccolo sito internet è nato anche – forse soprattutto – per sostenere l’idea di un partito riformista (come si usava chiamarlo allora). Non quella di De Benedetti e Veltroni, l’altra. Quella che finalmente, forse, magari, e se tutto va bene, prenderà forma dai congressi di Ds e Margherita nella prossima primavera.
Questa settimana Left Wing compie tre anni. Il Partito democratico è ancora in gestazione e di conseguenza la nostra ragione sociale ci pare non sia ancora venuta meno. Ma visto che siamo pure in periodo natalizio, abbiamo deciso di prenderci una vacanza. Torneremo a gennaio.
Dal 22 dicembre 2003 sono passati tre anni. A giudicare da quello che abbiamo appena detto nelle righe che precedono, le cose non stanno oggi molto diversamente da come stavano allora, a sinistra. Dai girotondi contro l’opposizione del 2002 ai sondaggini contro il governo del 2006, dai registi eterodiretti agli opinionisti a progetto, dagli utili idioti agli inutili intellettuali. Siamo sempre lì, dove eravamo e come eravamo anche da prima, e da dove sembra che non riusciamo più a muoverci. Come l’ultima irriducibile tribù dei galli, quella di Asterix, convinta che prima o poi il cielo le sarebbe caduto sulla testa. Ripetendo però ogni giorno, assieme al suo re: “Che cada è certo, ma domani no di sicuro”.
Forse sarebbe tempo di rassegnarci, lasciare che anche le leadership politiche siano determinate altrove, invece di insistere con la lagna della democrazia rappresentativa e dei partiti organizzati. Forse dovremmo smetterla di criticare le assemblee popolari convocate dalle assemblee dei soci. Forse dovremmo dire anche noi che c’è la globalizzazione, la crisi dei partiti e quella dei valori, e insomma ci vuole un leader carismatico che sappia parlare al cuore, non solo alla testa, e che sappia prenderci tutti un po’ per il culo. Forse dovremmo proprio smetterla. E forse un giorno la smetteremo, ma domani no di sicuro.