A fine anno, è d’uopo interrogarsi su come sarà il prossimo. Parliamo un po’ fuori dai denti, allora, di quelli che metaforicamente si chiamano “poteri reali”. In Italia, almeno a immodesto giudizio di chi qui scrive, è inutile che pensiate alla politica, e da molti anni. Il potere più forte è senza ogni dubbio quello bancario. Ancora la settimana scorsa, Alessandro Penati su Repubblica ha aggiornato puntualmente i dati dello strapotere bancario. Quando grazie all’euro si è prodotto il suo più vantaggioso effetto – tutti pensano ai minori interessi sul debito pubblico ma è invece il mercato dei corporate bond visto che i titoli del debito pubblico cessavano di esercitare l’effetto di crowding out del risparmio privato – in Italia le banche, oltre a controllare per intero la Borsa e il risparmio gestito e amministrato con le loro Sim e Sgr, oltre ad aver cartolarizzato e hedgato propri debiti e sofferenze per un centinaio di miliardi di euro, hanno rastrellato risparmio aggiuntivo per oltre 450 miliardi di euro piazzando ai loro sportelli proprie obbligazioni. Paragonate il tutto ai soli 60 miliardi raccolti da corporate bond di imprese italiane, che diventano meno di 20 se levate la sola Telecom e un paio di altri giganti indebitati, ed ecco nell’ambito dei poteri reali la dimensione vera del preminente potere bancario su tutti gli altri.
La minoranza di politici avveduti e consapevoli tace la verità, pensando di districarvisi al meglio con dichiarazioni compiacenti, strizzate d’occhio, silenzi strategici e modesti favori a chi in campo bancario sembra vincente. Nella minoranza, pochissimi decidono invece di fregarsene e di dire apertamente chi ha il coltello dalla parte del manico, e di solito se decidono di farlo è perché hanno l’idea che la politica dovrebbe recuperare una dignità e un ruolo. Non sto parlando dei nostalgici statalisti o della sinistra antagonista che pensano di riesumare il Cicr che varava nomine bancarie a centinaia, naturalmente. Dico tra coloro che hanno un’idea di come va il mondo nelle economie di mercato: laddove cioè la politica non detta a banche e aziende quel che devono fare nel loro mestiere, perché a vigilare sui mercati ci pensano regole chiare e autorità di mercato indipendenti e severe, ma certo la politica non si fa dire dai banchieri direttamente e attraverso i loro giornali che cosa debba fare o non fare essa nel suo campo. Di gente così ce n’è di storia, convinzioni e inclinazioni personali assai diverse. Massimo D’Alema, per esempio. Bruno Tabacci. Non troppi altri.
Che Romano Prodi sia a fianco dei vincenti di questa fase, è un fatto. Egli personalmente e il sistema oculatamente realizzato alla costituzione del governo, un sistema che consente a Palazzo Chigi “riporti personali” aggirando di fatto ogni ruolo – o quasi – di Ds e Margherita. Così è stata gestita la partita di maggior rilievo, la nascita di San-Intesa guidata dall’“amico” Bazoli, mentre a Torino il banchiere di riferimento dei Ds Modiano era invano convinto di poter attendere settembre per un’eventuale aggregazione col Montepaschi. Così è stata gestita la partita Telecom, che però a Prodi è andata storta: far mettere le mani dalle banche amiche e dalla Cassa Depositi e Prestiti sulla rete fissa, col risultato che il pur molto ammaccato Tronchetti Provera si è appeso a tutti i campanelli possibili contro Prodi. Quelli evidenti verso la Procura di Milano, come Guido Rossi – che stanno funzionando a quanto pare, visto che anche la seconda ondata di arresti per gli annosi delitti compiuti dalla security di Telecom tengono ostentatamente fuori ogni implicazione dei vertici aziendali sotto i quali il servizio è stato organizzato e lautamente pagato con mandati di pagamento per decine di milioni; e quelli meno evidenti ma non meno potenti, come la Capitalia di Geronzi. Su Autostrade, Di Pietro è andato un po’ oltre il mandato originario di Prodi: far capire ai Benetton che costava caro l’oltraggio di aver aggirato la nascita del governo anticipando in tutta fretta la fusione con Abertis. Ma in ogni caso la bordata dissuasoria è andata a segno con forza.
Ora Prodi ha diverse frecce al suo arco. E dietro molte di esse c’è San-Intesa. La gara per Alitalia, finta o vera a seconda di come sarà scritto il bando atteso per Natale; la revisione delle concessioni a tutti i 26 operatori autostradali e a quelli aeroportuali; la gestione Regione per Regione dei 50 miliardi da spendere in opere pubbliche; i rapporti con banche e imprese per rendere operanti i due Fondi varati da Bersani al ministero dello Sviluppo; il ridisegno e la rinomina della rete di Autorità che vegliano su settori rilevanti del mercato. Ma lo scontro che è in corso nel “potere tra i poteri” italiano, quello bancario, è quello centrale. Vedremo su Generali, se davvero San-Intesa diventerà oggi la vecchia Mediobanca, ma moltiplicata per due se non per tre. Difficile però, che di fronte a un’abbondanza che stuzzica tanti appetiti, il variegato mondo che di fatto non è nella stessa trincea, dai Benetton a Tronchetti, da Geronzi a quei politici che mostrano di aver capito che lo strapotere bancario bresciano non affonda certo le radici in una pura supremazia di mercato, continui solo a registrare sconfitte senza mettere in conto reazioni. Personalmente chi qui scrive non lo crede, ma ciò conta poco. Quel che più conta è che non serve affatto al Paese, un sistema nel quale Unicredit venga a concentrarsi per anni sulla sua crescita estera, e l’unico altro super polo intrecciato alle Generali sia quello dei mandanti da anni del raider in guanti bianchi Zaleski. Quello sui cui riusciti colpi a segno per pacchi di miliardi di euro, dalla vicenda Edf-Edison al ruolo debordante che avrà in Aem-Asm, a cento altre partite, guarda caso non ha mai interessato la Procura di Milano, tanto sollecita nello spezzare le gambe a Consorte e al suo disegno di affermare Unipol-Bnl come un grande polo alternativo banco-assicurativo.
Tra l’altro, consentite a questo proposito a chi scrive di fare una predizione per il 2007: scommetto che assisteremo prossimamente all’archiviazione dell’indagine aperta alla procura di Roma su Consorte (la vicenda Castellano si è già chiusa con un buco nell’acqua), mentre a Milano fonti riservate ma affidabili vogliono la Procura costretta a implorare all’indagato di patteggiare, perché non ha più niente in mano tanto che il pm Greco si è ormai sfilato dall’inchiesta. L’augurio è che Consorte tenga duro e non faccia come tanti, perché nel suo caso non serve un patteggiamento tanto per dare il contentino minimale all’ipotesi accusatoria in cambio di uscire dalla sua persecuzione con una pena solo simbolica e sospesa dalla condizionale. Nel suo caso serve un ristabilimento pieno dell’onore e ce ne sono tutte le condizioni, in modo che i Ds capiscano bene la gravità dell’errore compiuto credendo alle calunnie lanciate dai vertici della Margherita, Della Valle e Abete, e appoggino con tutte le loro forze la nascita e il successivo espandersi di Intermedia, la banca d’affari alla quale Consorte sta lavorando, forte del sostegno di una trentina di imprenditori e di cinque-sei banche italiane e straniere che non hanno mai avuto dubbi sul suo conto, perché lo conoscono da più di vent’anni. Non crediate che sia pazzo, a formulare un simile auspicio. Ne avverto nell’aria qualche premessa: tanto che lo stesso Della Valle su Consorte ha cambiato idea, come testimonia un recente sviluppo di cui la stampa ancora non ha scritto.
Certo, i Ds molto hanno da riflettere. Se invece di perdersi in guerricciole interne che hanno solo ingrassato gli avversari avessero mostrato di capire quanto poteva essere utile al pluralismo finanziario italiano ieri un polo Mps-Unipol-Bnl, oggi un approccio Mps-Capitalia su Mediobanca e su Generali, o ancora uno schema capace di fare di Mps un triangolo tra il meglio che resta libero delle Popolari da aggregare, e cioè Bper e Bpm (ci sta pensando Prodi, insieme però al margheritico Pinza, questa volta con la sua annunciata riforma delle quote azionarie nelle Popolari, appena la fusione cara a Intesa tra Lombarda e Bpu è andata in porto, perché lì la riforma avrebbe dato fastidio e infatti Pinza ha detto che non era urgente, tranne poi cambiare idea l’indomani) e dall’altra ancora una volta Capitalia, certo a Brescia e anche a Palazzo Chigi le cose starebbero un po’ diversamente. Ma non è mai tropo tardi per capire la lezione degli errori compiuti, e trarne vantaggio.
A chi obietta che queste riflessioni sono improprie, perché in verità ormai per fortuna i banchieri fanno i banchieri e dei politici se ne fanno un baffo, replico con una sonora e aperta risata. Chi scrive è un mercatista. Ma in un’aia ristretta di intrecciatissimi conflitti d’interesse qual è, per storia ed evoluzione, il sistema banco-finanziario italiano, sostenere che il binomio Bazoli-Prodi è estraneo alla politica è come dire che il fuoco bagna e la pioggia brucia.