Dopo essere entrato nello sfortunato tavolo dei volenterosi, e poco prima di rilanciarne il manifesto, Nicola Rossi è uscito dai Ds. La ragione di entrambe queste iniziative, come ha spiegato lo stesso ex-parlamentare diessino – o meglio: lo stesso parlamentare ex-diessino – sta nell’incapacità del governo di promuovere le riforme necessarie. Pertanto Rossi è uscito dai Ds, sulla base di un principio che appare indiscutibile: i guai dei Ds (e della Margherita) sono i guai del governo. Quello che però Rossi sembra non capire è che se questo è vero, è vero anche il reciproco: i guai del governo sono i guai dei Ds (e della Margherita).
Secondo Nicola Rossi e i suoi volenterosi amici, il problema del governo consisterebbe nella lotta tra radicali e riformisti, nella debolezza o nell’arrendevolezza di questi ultimi (cioè di Ds e Margherita) e nel fatto che il presidente del Consiglio giocherebbe nella squadra della sinistra radicale. Un equivoco che la recente riunione di Caserta ha definitivamente chiarito. Le liberalizzazioni del ministro diessino Pierluigi Bersani non sono state rallentate da Rifondazione comunista, ma dai riformisti Francesco Rutelli e Linda Lanzillotta. E non è nemmeno la prima volta. Già diverso tempo fa, quando Bersani aveva appena varato i primi decreti e si accingeva a elaborare i successivi passaggi legislativi, di punto in bianco il vicepremier e ministro dei Beni Culturali se ne venne fuori con il suo piano delle liberalizzazioni (peraltro apparso sul Corriere della sera prima ancora che in Consiglio dei ministri, a dimostrazione di quale fosse la scala di priorità). A voler essere cattivi, potremmo notare incidentalmente l’enfasi posta da Rutelli sulla liberalizzazione delle ferrovie, accostandola alla recente notizia fornita dal Sole 24 Ore, a proposito dell’ingresso di Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle nel “business dei treni passeggeri”. A voler essere proprio crudeli, poi, potremmo anche ricordare le alte parole pronunciate da Rutelli e Lanzillotta sulla necessità di separare la politica dagli affari – a proposito della scalata Unipol a Bnl – dopo avere amabilmente disquisito di politica e affari con Montezemolo e Della Valle, nel celeberrimo convegno di Frascati. Ma siccome non siamo animati da spirito di vendetta, capiamo che il problema è a monte. Tanto è vero che Bersani ha dovuto confrontarsi con identiche difficoltà all’interno del suo stesso partito, quando Walter Veltroni si è presentato a Palazzo Chigi nel bel mezzo della durissima vertenza con i tassisti (acclamato dai tassisti, ovviamente) per proporre una mediazione. Neanche fosse un paese straniero. Come se il ministro Bersani e i tassisti fossero israeliani e palestinesi. Per dimostrare che senza Walter Veltroni non si risolve niente, che solo lui è in grado di “coniugare riformismo e radicalità”, e come lui nessuno mai. E che insomma sarebbe uno splendido presidente del Consiglio.
La logica di tutto questo è sempre la stessa. Vale per i tassisti di Veltroni come per le liberalizzazioni di Rutelli. Il problema non è la lotta tra radicali e riformisti. Il problema è che per fare le riforme serve un partito riformista, e due sono dannosi. Perché se i partiti sono due, i riformisti, invece di passare il tempo a fare le riforme, lo passano a cercare di sabotare l’uno le riforme dell’altro.
A simili considerazioni gli avversari interni del Partito democratico contrappongono un falso paradosso: più ci si avvicina al Partito democratico, più coloro che in esso dovrebbero unirsi si dividono. Ma la ragione è fin troppo ovvia. Ognuno vuole arrivare al momento in cui si costruirà effettivamente il nuovo partito – e si deciderà chi farà il numero uno, chi il numero due e chi il numero venti – in posizione di forza. Dunque tenterà fino all’ultimo di mettere sotto gli altri. Ma la risposta non può essere, come dicono i critici del Pd, allora fermiamoci. Non facciamone nulla, oppure rallentiamo, cominciamo dalla federazione e poi si vedrà. La situazione rimarrebbe la stessa di oggi, con la guerra tra riformisti e riformisti, le riforme che non si fanno e la sinistra radicale che vince semplicemente perché gli altri si menano tra di loro. L’apparente paradosso di cui dicevamo deriva dal fatto che queste sono le doglie del parto. E serve un cesareo subito, altrimenti perderemo insieme la mamma e il bambino. Dire poi, come dicono altri, che il problema si risolve eleggendo segretario dei Ds o leader del centrosinistra un dodicenne, perché così si fa il ricambio generazionale, e finalmente arrivano i giovani, i giovani, i giovani e l’esercito del surf, è dire una cosa senza capo né coda, che non si capisce come potrebbe risolvere il problema. E se il giovane emergente, l’Obama italiano, poi si scopre che sarebbe Walter Veltroni, dopo aver visto la foto dell’Obama americano pubblicata da People – mentre esce in costume dall’oceano, fisico scultoreo in vista – basta immaginare il sindaco di Roma che fa le abluzioni sul litorale pontino, per capire a che punto siamo arrivati.
Il problema dei dirigenti diessini è che invece di saltare il fosso, ci girano attorno. Pensano che prendendola alla larga, alla fine troveranno un punto in cui basta un passettino, e tutto va a posto. Senza traumi, senza paure e senza scissioni. Ma così non si fa che prolungare l’agonia. Fino a quando i partiti riformisti saranno due, e non uno, ogni giorno che passa ci saranno nuovi caduti e nuovi disertori. In entrambi i partiti. Infatti, fino a poco tempo fa, prima che l’uscita di Nicola Rossi concentrasse l’attenzione sui Ds, non è che nella Margherita le cose andassero meglio, tra voci di scissioni e accuse di truccare il tesseramento a Striscia la notizia. Non a caso il risultato elettorale della Margherita è stato tanto poco esaltante quanto lo è stato quello dei Ds (al contrario della lista dell’Ulivo, che ha preso più della somma dei due partiti). I sintomi sono gli stessi perché la stessa è la malattia. Di conseguenza, la stessa è la cura: fare subito il Partito democratico. E subito vuol dire subito, nel 2007, nei prossimi congressi di Ds e Margherita. E se il timore di una scissione spingerà i dirigenti diessini a offuscare la linea politica, non dicendo esplicitamente che in questo congresso i Ds si sciolgono, i Ds si scioglieranno lo stesso. E’ da tempo, ormai, che si stanno sciogliendo. Come neve al sole.