Una delle cose più complicate a capirsi, quando si legge il “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, è che diavolo c’entri con la strage di Erba. Quando si pongono simili questioni, bisogna sempre ricordarsi dell’immortale racconto di Achille Campanile su “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima” – una scrupolosa disamina dell’inesistente rapporto che è possibile stabilire tra gli asparagi, nota pianta erbacea dai gustosi germogli, e il principio di vita spirituale che albergherebbe in ognuno di noi. Il tentativo di stabilire una qualche analogia tra l’asparago e l’anima, sulla base ad esempio del fatto che il primo ha una parte, il gambo, che solitamente si scarta, e la seconda “scarta” dal corpo al momento del trapasso, naufraga miseramente di fronte all’evidenza attestata dal fatto che dell’asparago il gambo è la parte meno pregiata, mentre l’anima è o dovrebbe essere la parte più nobile dell’uomo. Nel breve volgere di qualche pagina, il narratore deve mestamente concludere che il tema proposto nel titolo del suo racconto non può essere svolto con qualche probabilità di successo.
Anch’io avevo fatto qualche tentativo. Ad esempio: la meticolosa cura con cui i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi hanno preparato la strage ha la stessa preziosa precisione con la quale Wittgenstein procedeva nella disposizione delle sue proposizioni. Oppure. Olindo Romano era un netturbino, e la moglie donna delle pulizie. Anche il Tractatus risponde ad una radicale impresa di pulizia del linguaggio, condotta però con i metodi dell’analisi logica. I coniugi sono apparsi dei pazienti calcolatori; al centro del Tractatus sta un calcolo. Quanto poi al fatto che non ci riesce di spiegare come due persone ordinarie possano nutrire un odio così grande da spingerli a compiere un delitto così efferato, per poi tornare a condurre una vita del tutto normale, m’è parso per un momento che potesse essere meglio compreso sulla base di una fondamentale proposizione wittgensteiniana, la 1.21: “Una cosa può accadere o non accadere e tutto il resto restare uguale”. È vero infine che, sul versante etico, il Tractatus inclina al sublime, ma è noto che il sublime può comunicare con l’orrore; d’altra parte, se nel Tractatus il mistico si mostra senza potersi minimamente spiegare, anche nel delitto di Erba la violenza si mostra senza giustificazione alcuna.
Tutte queste sorprendenti analogie, che mi avevano incoraggiato nella mia ricerca, non toccavano però l’essenziale, e il fallimento di Campanile stava lì ad ammonirmi di non escludere che la mia ipotesi fosse comunque assai campata in aria. Al cuore del Tractatus sta infatti la difficile teoria dell’immagine: o trovavo il modo di infilarci quella, o dovevo rinunciare a capire cosa diavolo c’entrasse l’esplosione di violenza nel comasco con i crucci linguistici del filosofo viennese. Ora, la teoria di Wittgenstein può essere illustrata così: i pezzi sulla scacchiera, una fotografia di quei pezzi, la proposizione che dice come sono disposti quei pezzi, la relativa notazione scacchistica abbreviata, dicono in realtà tutti la stessa cosa. E dicono la stessa cosa perché hanno la stessa “forma”. Ma non hanno la stessa forma perché si somigliano fisicamente: la fotografia ha con i pezzi un’evidente somiglianza sensibile, ma non così le parole. Hanno dunque la stessa “forma logica”, la quale è, più o meno: il modo in cui quel fatto si inserisce nel lotto completo delle possibili combinazioni dei pezzi del gioco. In ciascun codice (nella lingua italiana, ma anche nelle altre lingue, oppure nella notazione convalidata dalla Federazione scacchistica) dire come stanno i pezzi significa selezionare la stessa combinazione e insieme (questo “insieme” è importante) escludere tutte le altre possibili combinazioni del gioco. La teoria di Wittgenstein dice insomma questo di assai sorprendente: quando dico che il Re bianco è nella casella g1, non comunico solo questo fatto, ma comunico anche sull’intero mondo (degli scacchi), a cui quel fatto appartiene.
Ora, mi scuso se per un intero capoverso ho costretto il paziente lettore a cimentarsi con le asperità della filosofia, ma mi pareva che l’ipotesi di partenza fosse abbastanza suggestiva da meritare un simile approfondimento. Ora che l’ho dato, posso compiere il passo successivo: cercare nella strage di che dire sull’universo mondo.
E infatti. Umberto Galimberti, su Repubblica, partendo dalla coppia assassina, riesce a spiegarmi addirittura “quel che si va diffondendo tra i giovani d’oggi”, non importa che la coppia assassina non appartenesse da un pezzo al mondo giovanile. Su Liberazione, sempre muovendo dalla strage, si riesce invece a dire qualcosa a proposito del capitalismo occidentale e delle sue false promesse. Su Avvenire, Marina Corradi tira invece in ballo la secolarizzazione.
Forte di questi validi esempi, ho creduto di potere anch’io gettare luce, che so, sul livello dei salari (se fossero stati benestanti, i coniugi avrebbero potuto permettersi di dare fuoco alla loro macchina, cancellando le tracce residue) o sulla fecondazione artificiale (pare che l’assassina non potesse avere figli, e che per questo non sopportasse il piccolo Youssef). ma poi mi son dovuto fermare.
Il fatto è che Witgenstein la mette in altra maniera. Ogni proposizione dice quel che dice, e insieme mostra. Quel che però mostra, non è un altro fatto, o un altro insieme di fatti collegati al primo. Piuttosto, la proposizione dice il fatto, e mostra lo spazio in cui è possibile dire quel che dice. La scacchiera, insomma. Dunque niente articolo sul delitto e i salari del mondo d’oggi, niente articolo sull’assassina e le vere o false promesse delle nuove tecniche di inseminazione.
Ma ecco l’intuizione improvvisa che mi consente di salvare in extremis la mia ipotesi, e di avere miglior fortuna del pur brillante Achille Campanile: lo spazio in cui è possibile a Galimberti dire quel che dice, lo spazio su cui Galimberti non dice nulla, che da Galimberti non può venir detto perché è la condizione di dicibilità del suo dire, lo spazio che però da Galimberti viene mostrato, e mirabilmente mostrato, è – ça va sans dire – lo spazio dei giornali quotidiani. Devo aggiungere altro?