Siamo nell’era della democrazia in musica. Perché mai dovrebbe essere necessario sapere qual è la differenza tra una croma e una semiminima, o addirittura essere in grado di suonare uno strumento? Computer, campionatori, software musicale di ogni sorta, raffinatissime tecniche di taglia e incolla hanno abbattuto la dittatura dello “studiare musica”, rendendo la creazione quasi un lavoro da informatici. Rubo e riassemblo, questa è la chiave: prendo la sezione ritmica di quel tale pezzo, la replico, ci metto sopra uno spezzone chirurgicamente asportato da qualche altro pezzo, faccio un po’ di editing e via di questo passo. Tanta musica è nata e continua a nascere da questo singolare processo che potremmo chiamare nobilmente di rielaborazione, o crudamente di furto poco autorizzato, e il fatto curioso è che in questo modo sono state prodotte alcune delle cose più interessanti e innovative che si siano sentite negli ultimi anni. Sicché acquista ancora maggiore rilievo il fatto che da un po’ di tempo a questa parte vadano emergendo giovani musicisti, in grado di suonare bene uno strumento, quasi sempre la chitarra, che hanno invece fatto la scelta di procedere in direzione diametralmente opposta. Scrivere canzoni essenziali, senza fronzoli, capaci di andare dritte al punto, con influenze esterne ridotte al minimo, fatte di molti vuoti e pochi suoni, quasi sempre acustici: questo può essere considerato il loro manifesto. E non si dovrebbe far fatica a capire che riuscire nell’impresa è cosa maledettamente difficile, molto di più che non cimentarsi nella tecnica dell’assemblaggio.
Dire con sufficiente precisione quando questa nuova tendenza abbia cominciato a prendere piede è tutt’altro che semplice, e il riferimento non è ovviamente ad ex-mostri sacri del genere che continuano, spesso stancamente, una produzione perlopiù uguale a se stessa. Ciò nonostante, si sarebbe tentati di mettersi alla ricerca di un sia pur labile inizio, e la probabilità di individuare in Damien Rice uno dei capostipiti del nuovo genere acustico sarebbe sicuramente elevata. Damien Rice, irlandese trentatreenne che nel 2003 si è imposto col suo primo disco, il fondamentale “O”, ha scritto una delle più belle canzoni (la più bella?) degli ultimi anni, “The blower’s daughter” – e anche Nanni Moretti ha mostrato di accorgersene, inserendola nella colonna sonora del Caimano. Ora, mentre Damien ha già pubblicato il suo secondo album, “9”, bello ma non all’altezza del primo (non poteva che essere così), vanno affermandosi, senza seguire una particolare scia, altri talentuosi songwriters. Per brevità ne citiamo qui solo due, cominciando da Fink, il cui percorso sembra essere emblematico di quello che si diceva prima. Questo inglese di Brighton proveniente dagli ambienti DJ è proprio uno di quelli che dopo aver lavorato per anni con ogni sorta di diavoleria elettronica, ha mollato tutto ed è ritornato a quello che fino ad allora aveva considerato un fatto strettamente privato, suonare la chitarra acustica: “qualcosa che prima avrei fatto solo qualora nessuno stesse ascoltando”, come ha affermato lui stesso. Il suo album, “Biscuits for breakfast”, colpisce forse proprio perché riesce a restituire fedelmente questa dimensione, con in particolare due canzoni che brillano per essenzialità e altezza dell’ispirazione, “Pills in my pocket” e “All cried out”, quest’ultima una cover quasi irriconoscibile di un vecchio brano di Alison Moyet.
Francese (ma non del tutto) è invece Piers Faccini, nato in Inghilterra da padre inglese di origini italiane e madre olandese di origine polacche, ma presto trasferitosi con la famiglia appunto in Francia, di cui è da poco uscito il secondo album “Tearing sky”. Rispetto a Fink, qui c’è una maggiore apertura verso influenze esterne. La registrazione ha avuto luogo a Los Angeles con ospiti d’eccezione come Ben Harper, viene utilizzato il sitar nella splendida “Days like this”, la kora, suonata da Ballake Sissoko, musicista del Mali, nelle altrettanto significative “Talk to her” e “If I”, ma influenze folk-blues sono in generale evidenti un po’ dappertutto. Tutto è all’insegna dell’intensità e della compostezza, di un equilibrio senza ridondanze che conferisce all’album una sua corposa solidità. E in Italia? Niente di particolarmente significativo all’orizzonte, tanto per cambiare.