Sul palco del ciclismo sta andando in scena da alcuni mesi lo stesso dramma variamente rappresentato in ben altri teatri: il copione prevede un eterno perdente che riesce a farsi passare per vittima di una serie di vergognose ingiustizie ricavandone un vantaggio sportivo e divenendo il portavessilli della ritrovata moralità dello sport, l’immagine stessa del campione di onestà e di uno sport tornato finalmente sano dopo il repulisti. Salvo poi scoprire che la presunta vittima, il presunto campione di moralità barava come e quanto gli altri. A volte perfino peggio. E che la celebrata rivoluzione altro non era che una banale operazione di facciata. No, non stiamo parlando del calcio, dell’Inter e della Juventus, ma di ciclismo, di Floyd Landis e di Ivan Basso.
Nel ciclismo il grimaldello per la finta rivoluzione è stato il “codice etico”. Funziona così: le squadre professionistiche accettano, pena l’esclusione dal circuito internazionale, di sottoscrivere un accordo con la federazione che le impegna a sospendere un proprio corridore qualora sorga anche il minimo sospetto che questi possa avere violato le norme antidoping. Formalmente è un’autosospensione, di fatto è una squalifica.
Attenzione: per la sospensione dall’attività agonistica è sufficiente il semplice sospetto. E’ sufficiente, ad esempio, che ad alcune voci trapelate da una procura spagnola che indaga su un giro di sangue per autoemotrasfusione – pratica vietatissima – e ad alcune intercettazioni telefoniche (va da sé, prontamente pubblicate sui giornali) venga associato un nomignolo che potrebbe, forse, riferirsi al cane di un noto ciclista professionista. E’ sufficiente che su simili notizie la federazione sollevi un sospetto perché quel corridore sia sospeso a tempo indeterminato.
In questa trappola è caduto, tra gli altri, Ivan Basso che per quelle voci, mai formalizzate in accuse e infine seccamente smentite dalla magistratura, fu sospeso dalla propria squadra su richiesta della federazione alla vigilia dello scorso Tour de France. E neanche quando l’inchiesta giudiziaria che aveva dato il via al massacro si è sgonfiata, neanche quando i giudici stessi che la conducevano hanno negato di poter associare a Ivan Basso quelle sacche di sangue, neanche allora a Basso è stato consentito di correre. Per colmo di follia poi, dato che la procura spagnola, negando di poter associare quel sangue a Basso, non gli consente di sottoporsi al test del dna che lui invoca, il corridore si ritrova nella paradossale situazione di non poter dimostrare la propria estraneità ad accuse che formalmente nessuno gli muove. Nondimeno il sospetto rimane e Ivan Basso è ancora a spasso. Quanto aleatoria e manipolabile sia una giustizia sportiva fondata su tali criteri ci pare talmente evidente da non richiedere ulteriore dimostrazione.
Ivan Basso fu dunque cacciato dallo scorso Tour de France col marchio del dopato e tutti i problemi del ciclismo sembrarono risolti. Ci si apprestò dunque a celebrare il Tour della resurrezione di uno sport finalmente liberato dal suo male di sempre. Quel Tour quanto mai noioso lo vinse Floyd Landis. Organizzatori e giornali sportivi non lesinarono iperboli per celebrare il peana del ciclismo finalmente ripulito. Poi venne fuori che proprio lui, Landis, era dopato, dopatissimo; incastrato non da un vago sospetto ma da analisi e controanalisi delle sue urine. La vittoria gli venne revocata e assegnata pro tempore al mediocre Pereiro Sio, che ritrovatosi in seconda posizione grazie ad una fuga bidone, si vide assegnato il trofeo una settimana dopo la fine della corsa per la squalifica postuma di Landis. Non è finita: perché anche Pereiro Sio, è notizia di questi giorni, è risultato positivo ad una sostanza vietata dai regolamenti e contenuta, a suo dire, in un farmaco contro l’asma per il quale avrebbe peraltro l’autorizzazione della federazione. La quale, così severa sui nomignoli dei cani, non trova tuttavia nulla da ridire sul fatto che tanti ciclisti professionisti, atleti d’acciaio, che pedalano 20.000 km l’anno, soffrano d’asma, poverini, e abbiano pertanto l’autorizzazione a spararsi pere di Ventolin.
Insomma, siamo a gennaio e ancora non si sa a chi assegnare la vittoria del Tour de France corso l’estate scorsa. Cioè: nella tanto celebrata “nuova era del ciclismo sano” ancora non si trova un corridore non dopato al quale assegnare la vittoria della corsa più importante del mondo disputata sei mesi fa.
Così va il ciclismo. E così va il mondo, verrebbe da dire. Si voleva far credere di aver ripulito l’immagine del ciclismo con squalifiche un tanto al chilo, si voleva lanciare l’immagine di un movimento che espelle da sé i propri mali con irriducibile rigore e metodi sbrigativi, perché di fronte alla cancrena urgeva, senza tante storie, l’amputazione netta degli arti infetti.
Il brillante risultato è stata l’esclusione di un ciclista pulito che quel Tour l’avrebbe probabilmente vinto, e la conseguente vittoria di due ciclisti invece certamente dopati. Con quali esiti per l’immagine del ciclismo lo lasciamo giudicare al lettore.