Prima o poi finirà così. Il centrosinistra sarà attraversato dall’ennesima crisi, contestato dalla base e messo sotto accusa dai mezzi di comunicazione, finché l’annosa campagna per il ricambio generazionale, per lo svecchiamento della politica e della classe dirigente – tra dieci, venti o trent’anni – incoronerà finalmente, passati ormai gli ottanta, il capo incanutito di Walter Veltroni.
Il fallito assalto alla direzione ds del 18 gennaio non è stata la prima e non sarà certo l’ultima occasione, per Veltroni, di far saltare il banco del centrosinistra. Una manovra di cui non si può non riconoscere la finezza: prima il tentativo di ricostituire il correntone, mettendo attorno a uno stesso tavolo il segretario della Cgil e il leader della minoranza diessina, l’editore di Repubblica e se stesso; poi spingendo la corrente di Fabio Mussi a chiedere un rinvio del congresso fino a dopo le elezioni amministrative. Così da impedire la nascita del Partito democratico (trasformando di fatto il congresso della Margherita in un processo ai Ds) e mettere in crisi il governo Prodi (trasformando di fatto il congresso dei Ds in un processo ai responsabili della sconfitta alle amministrative, resa pressoché certa da una simile dinamica). Questa è la manovra che Piero Fassino ha sventato chiudendo un accordo su data e regole delle assise proprio con la minoranza di Mussi, e fissando il congresso al 19 aprile. Ciò non toglie, naturalmente, che prima o poi Veltroni uscirà allo scoperto e travolgerà l’attuale leadership del centrosinistra. Magari non domani, ma lo farà.
Due giorni dopo la direzione, a Roma si è tenuta l’assemblea dei segretari di sezione dei Ds. La relazione introduttiva è stata tenuta da Andrea Orlando, un giovane esponente della segreteria – una ventina d’anni meno di Veltroni, per capirci – che ha detto quanto segue (il testo integrale, sul sito dei Ds, lo trovate qui).
Primo: “C’è la frammentazione interna alle forze politiche. E poi c’è la competizione spesso assai più violenta all’interno delle stesse aree politiche. (…) Tutto questo provoca autoreferenzialità e distacco dai cittadini, infine debolezza. Ed è questa che autorizza i poteri di fatto, peraltro assai meno rappresentativi di trenta, venti o anche solo dieci anni fa, a pensare di poter dettare le regole del gioco. Così si può pensare di scegliere un leader, di destituirlo, di fare e disfare governi, sulla base di un articolo di fondo di questo o quel giornale, magari dettato dall’editore”.
Secondo: “E’ il ricorrente tentativo, con gli stessi protagonisti, di indebolire noi per colpire un’idea della politica della quale noi siamo la rappresentazione più forte. Un’idea, la nostra, che non accetta il fatto che un paese civile e moderno possa essere governato da qualche salotto, buono o cattivo che sia. Questo è il punto”.
Terzo: “Si manifesta in questa vicenda un episodio di un conflitto più ampio che attiene alla sostanza della democrazia oggi. Mentre si discute in astratto di radicali e moderati, la politica tutta rischia di diventare l’impotente testimone di trasformazioni determinate in altre sedi che sfuggono al controllo dei cittadini”.
Un discorso, come si vede, di inusuale chiarezza, specialmente nell’identificazione degli avversari e della posta in gioco. Ciò non toglie, naturalmente, che prima o poi Veltroni uscirà allo scoperto e travolgerà l’attuale leadership del centrosinistra. Magari non domani, ma lo farà.
Nelle ultime due settimane, e proprio a partire dalla vigilia della famosa direzione del 18 gennaio, tutti i principali dirigenti di Ds e Margherita si sono detti decisi a rompere ogni indugio, a proseguire sulla strada del Partito democratico senza ambiguità e senza perdite di tempo. Di qui è venuta la proposta di votare nelle sezioni (e non solo) il manifesto del Partito democratico. E mercoledì scorso, scrive Repubblica, in un vertice riservato dei Ds si è deciso che nella mozione Fassino sarà scritto a chiare lettere che all’indomani del congresso partirà la fase costituente del Partito democratico (la mozione sarà firmata anche dal sindaco di Roma, sia pure “continuando a essere critico sul modo in cui sta nascendo il Pd”).
Nel frattempo, su tutti i giornali, un altro leader politico emergente è stato da Silvio Berlusconi prima definito più o meno un inetto, quindi incoronato futuro capo del centrodestra e infine destituito: Gianfranco Fini. Nominato un’unica volta da Berlusconi, nel suo lungo discorso a un convegno su se stesso, quando ha parlato del prestigio internazionale che il paese si era guadagnato sotto il governo della Casa della libertà. E interrompendosi, rivolto al presidente di An, ha detto: “Non ridere, Gianfranco. In fondo, un po’ è anche merito tuo”.
Martedì 30 Veltroni e Fini rilanceranno il referendum elettorale in un pubblico convegno al Residence Ripetta di Roma. Se la legge elettorale cambiasse, magari proprio grazie a una clamorosa vittoria referendaria, molto probabilmente si andrebbe a elezioni anticipate nel 2009. E per i due giovani cinquantenni, a quel punto, tutte le porte potrebbero aprirsi. Il modello del “sindaco d’Italia” a cui lavorano, tuttavia, richiederebbe una riforma costituzionale, limitando pesantemente le prerogative del presidente della Repubblica. Non sembra una cosa facile. Ciò non toglie, naturalmente, che prima o poi Veltroni uscirà allo scoperto e travolgerà l’attuale leadership del centrosinistra. Proprio come Fini nel centrodestra.