Pare che la democrazia italiana non funzioni molto bene. Le definizioni accademiche sono molte e antiche: democrazia bloccata, crisi di sistema, transizione incompiuta. Dal punto di vista storiografico, come è stato tante volte notato, si direbbe che l’intera vicenda nazionale porti in sé, da sempre, il germe dell’incompiutezza. Dal Risorgimento alla Resistenza, la storia del paese è spesso raccontata come una serie interminabile di occasioni mancate. Segnate dalla debolezza, dalle congiure o dal tradimento delle sue classi dirigenti. Quasi a volere accreditare l’immagine di un’Italia malata – quell’immagine che tante volte, nei momenti cruciali, abbiamo visto sulle copertine dell’Economist o nei titoli del Financial Times – minata da un male ereditario e incurabile, da una malattia genetica e autoimmune. Quasi si volesse giustificare ogni sorta di quarantena per le sue classi dirigenti, ogni sorta di cordone sanitario, fino a quando quelle stesse classi dirigenti non avessero riconosciuto lo stato di minorità del paese e acconsentito di buon grado alla sua messa sotto tutela.
L’opinione prevalente nel dibattito pubblico giustifica e approva di tutto cuore diagnosi e terapia, individuando la radice del male in quella “classe politica” che un vasto movimento di opinione pubblica si ripropone periodicamente di espiantare, acclamando al loro arrivo – per l’occasione – improbabili chirurghi e variopinti sciamani, venditori di rinnovamento, segaossa del sistema politico degni di una commedia di Molière.
Questo gioco stanco e ripetitivo, che con alterne fortune va avanti sin dal 1992, porta evidenti su di sé i segni di tutte le strumentalizzazioni. La ridicolizzazione permanente della politica e dei partiti manca infatti il punto di fondo. E il punto è la crisi della democrazia, non la crisi della politica. Come dimostra anche l’ultima e sommamente deprimente campagna sulla mancanza di ricambio nella politica, sulla scarsa presenza di giovani e donne, come se ai vertici della finanza e dell’editoria, come se alla direzione dei grandi giornali – gli stessi giornali che guidano simili campagne per il rinnovamento del paese – non fossero sempre gli stessi i nomi e le collocazioni, in un gioco di relazione interminabile e autoreferenziale, impermeabile al tempo e alla storia.
Il problema italiano è certamente, in gran parte, la debole o nulla circolazione delle élite. Il nostro dibattito pubblico è asfittico. Di qui il senso di soffocamento, per mancanza di ogni ricambio d’aria. L’unica riforma davvero urgente e necessaria è certamente la liberalizzazione del mercato delle idee, della cultura e dell’informazione. Ma non è una riforma che si possa fare per decreto. Tanto meno con gli appelli al ricambio generazionale o per le quote femminili, piagnucolando e implorando non si sa bene chi, se una generica opinione pubblica o i suoi presunti burattinai. Non è solidarizzando con gli inutili sorrisi dei tagliati fuori dal campo visivo delle foto ufficiali e dei servizi scandalistici che si risolverà il problema. La circolazione delle élite è garantita dal conflitto, non dalla cooptazione.
La scarsa circolazione delle élite è insieme causa e conseguenza, a sua volta, della scarsa mobilità sociale del paese. Gli illustri accademici milanesi che riempiono del nulla i loro editoriali sono i “genitori sociali” di quei giovani che a Catania hanno messo a ferro e fuoco le vie intorno allo stadio di calcio, perché non avevano e probabilmente non avranno mai nulla di meglio da fare. L’intreccio tra alta finanza, potere editoriale e mondo del calcio, per chi avesse ancora dei dubbi, lo ha spiegato Oscar Giannino – qui – in un articolo scritto esattamente un anno fa, cui non troviamo oggi nulla da aggiungere.
Circolazione delle élite e mobilità sociale sono i compiti fondamentali di qualsiasi partito democratico. Ogni altro discorso su identità e valori della sinistra è pura retorica. E altrettanto può dirsi di qualsiasi partito che voglia definirsi cristiano, richiamandosi all’esperienza della Dc e alla dottrina sociale della Chiesa.
Questo è dunque il tema che sta davanti ai gruppi dirigenti attualmente impegnati nella costruzione del Partito democratico. Non è questione di nomi, non è questione di età, non è questione di sesso (o di genere, come si usa dire oggi). Non è questione di identità né di carta di identità. Circolazione delle élite e mobilità sociale, come risultato di un conflitto aperto e trasparente per l’egemonia – non dell’altrui elemosina – sono semplicemente la missione del Partito democratico e di quel che resta dei gruppi dirigenti dell’intero centrosinistra. I quali forse dovrebbero cominciare a domandarsi, mentre sono impegnati a garantirsi adeguate collocazioni di qui ai prossimi dieci o vent’anni – e ci mancherebbe che non se ne preoccupassero, come chiunque di noi – chi e che cosa verrà dopo. Dopo di loro.
Quanto al perché la democrazia italiana oggi versi in simili condizioni, da lunga data e in particolare dal ’92, sarebbe un lungo discorso. Un discorso che prima o poi bisognerà fare, però, se si vuole uscire dal villaggio vacanze incantato in cui sembra imprigionata la politica italiana, con tutto quello che le ruota attorno. E forse proprio coloro che oggi pongono le fondamenta di un nuovo partito, un grande partito popolare di massa – come si diceva una volta – un partito cioè che sia forte abbastanza da rendersi autonomo dai condizionamenti e dal ricatto dei grandi poteri irresponsabili e delle piccole corporazioni intellettuali, forse potrebbero essere proprio loro a cominciarlo, il discorso. Per liberare l’Italia da questa ridicola, ripetitiva, anacronistica maledizione.