L’ ultima cosa che Jonny Wilkinson era stato visto fare con la maglia della propria nazionale era stata calciare un drop in mezzo ai pali nei tempi supplementari. Era il 28 novembre 2003. Pochi secondi dopo, il fischio del signor Watson, del Sudafrica, avrebbe certificato che Wilkinson e la sua Inghilterra erano, per la prima volta, campioni del mondo di rugby.
Da quella finale una serie di infortuni gli aveva impedito di indossare la maglia numero dieci. In questi tre anni il rugby inglese ha vissuto alcune delle peggiori stagioni della sua storia recente, alternando periodi di crisi profonda a tentativi di resurrezione mai definitivi. La profondità della crisi non era certo ascrivibile alla mancanza di un unico giocatore, ma di sicuro sarebbe stato tutto più semplice, per gli inglesi, se avessero potuto schierare la migliore apertura del mondo.
Spiegare Jonny Wilkinson e il suo impatto sulle partite a chi non lo abbia mai visto non è semplice. Non è un giocatore particolarmente spettacolare, non ha un fisico prorompente, non è nemmeno imprevedibile e fantasioso. Però è un manuale vivente di tecnica e tattica rugbistica. In ogni situazione di gioco la sua scelta sarà di norma la più semplice e convenzionale. Ma eseguita con assoluta pulizia, velocità e precisione. Poi c’è la sua abilità nei calci piazzati. Wilkinson sistema il pallone, conta i passi per prendere la distanza, e si concentra per qualche secondo. Immobile, chinato in avanti, le mani giunte davanti a sé, il sedere all’infuori. Non c’è nulla da ridere, perché il risultato di questo curioso esercizio zen è invariabilmente un calcio esattamente in mezzo ai pali. Non all’interno della porta, perfettamente al centro. Se fosse stato un giocatore di basket Wilkinson sarebbe stato un Larry Bird. Ineguagliabile al tiro, eccellente in ogni altro fondamentale, concentrazione ed essenzialità. Nessuna concessione allo spettacolo fine a se stesso. In più, rispetto al suo omologo cestistico, un viso da angioletto biondo mai spettinato nonostante i placcaggi.
Sabato è tornato in campo, dopo oltre mille giorni di assenza, per Inghilterra-Scozia del Sei nazioni. Aveva nelle gambe giusto quaranta minuti di rugby giocato con il suo club, il Newcastle, ma Brian Ashton, il nuovo allenatore inglese, lo ha schierato lo stesso. La partenza è stata un po’ legnosa, poi, dopo dieci minuti, gli scozzesi hanno fatto un errore imperdonabile con Wilkinson in campo. Hanno commesso un fallo. Wilkinson ha assunto la sua posizione zen. Con un labbro viola per un colpo ricevuto e la maglietta schizzata del proprio sangue sembrava l’apertura fantasma, tornata dall’oltretomba. Ha chiuso gli occhi, li ha riaperti, e ha segnato tre punti. I primi tre. Alla fine del primo tempo erano diventati dodici, tre punizioni e un drop. Un solo fastidioso errore nella trasformazione di una meta.
Col passare dei minuti si è visto anche il resto del repertorio: passaggi, penetrazioni, placcaggi. Normale amministrazione fino a metà ripresa. E poi è accaduta una cosa assurda. Harry Ellis, il mediano di mischia inglese, prova a penetrare da una maul sulla destra, e fa un buco di venti metri eludendo due placcaggi. Serve Wilkinson che arriva a sostegno, mentre la difesa scozzese scala per coprirlo. Wilkinson ha una decina di metri da fare per arrivare in meta, cinque dalla linea laterale e una difesa che monta verso di lui. Punta la bandierina, come un vero finisseur, ma lo spazio non gli basta. Wilkinson, il difensore scozzese e la bandierina sono racchiusi in sei metri, poi tre, poi in due. Non ce la può fare. Allora si tuffa fuori dal campo. Ma mentre deborda verso l’esterno, sospeso in aria, plastico e orizzontale, allunga il braccio sinistro, che tiene il pallone, e prova a infilarlo all’interno della bandierina. Se riesce a schiacciare il pallone in quei venti centimetri quadrati di campo prima che il suo corpo tocchi terra, e prima che il difensore riesca a metterci le mani sopra, è meta. La palla viene schiacciata in meta dalla mano di Wilkinson, mentre il resto del suo corpo atterra fuori dalla linea laterale. Ce l’ha fatta, o forse no. Nel dubbio l’arbitro chiede l’intervento del Television Match Officer, l’addetto alla moviola, che probabilmente in quel momento ha le lacrime agli occhi, come tutto lo stadio, e se anche vedesse il piede destro toccare terra prima del pallone, non avrebbe il cuore di dirlo. Wilkinson si alza e va a trasformare per i due punti supplementari. Assume la posizione e centra i pali. Quando uscirà dal campo, a cinque minuti dalla fine, accolto da un’ovazione, avrà segnato ventisette punti. Unici segni di umanità due calci finiti di poco a lato, un labbro rotto e un po’ di fango sulla maglietta.