E’ certamente significativo che un buon numero di giovani artisti scelga di creare sfruttando il meno possibile le infinite opportunità offerte dall’elettronica. Di belle canzoni semplici e dirette, prevalentemente acustiche, cominciamo a sentirne diverse in giro, e ai nomi già ricordati qualche settimana fa – Damien Rice, Fink, Piers Faccini – sarebbe certamente il caso di aggiungerne altri (ci limitiamo all’inglese Scott Matthews, autore di “Elusive”, prototipo di canzone moderna ed equilibratissima). Ma possiamo accontentarci di questa visione delle cose alla fine un po’ tradizionale, per quanto (per fortuna) ancora portatrice di splendide e ispirate intuizioni? Cioè, non è il caso di chiedersi in quale misura si sia riusciti ad aggiornare la forma canzone, indirizzandola maggiormente lungo la strada dell’innovazione e/o della sperimentazione? Qui è naturale aprire una parentesi sulla scivolosità dei due termini, troppo spesso abbinati in maniera automatica alla categoria della superiore qualità artistica. Innovare significa essenzialmente immettere idee nuove, e la sensazione è che tra tutte le forme d’arte la musica sia quella in cui più labile è il nesso di causalità tra un’idea “bella” e un prodotto “gradevole”. Senza avere la benché minima intenzione di avventurarsi in speculazioni estetico-filosofiche, si può comunque convenire sul fatto che quasi sempre l’ascolto di un pezzo scritto nel solco di una qualche tradizione riserva maggiore piacevolezza rispetto a uno nel quale vengano battute strade completamente nuove. Prendiamo, ad esempio, il caso dei Talking Heads, storica band fondata da David Byrne che ha dominato la scena musicale newyorkese tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Da un lato abbiamo le canzoni secche e veloci dei primi due album, “77” e “More songs about buildings and food”, caratterizzate da sonorità immediatamente riconoscibili ma sostanzialmente strutturate in maniera tradizionale, con tanto di ritornello accattivante. Dall’altro abbiamo le sperimentazioni formali del quarto album, “Remain in light”, del 1980, a lungo celebrato come portatore di una nuova estetica musicale, fatta di elettronica e di contaminazioni, di ritmiche a volte ossessive in cui influenze funky e percussioni tribali si mescolano spericolatamente (e di lì a poco avrebbe visto la luce il fondamentale ma quasi inascoltabile “My life in the bush of ghosts” di Byrne e Eno). Ora, non sono pochi quelli che con buone motivazioni considerano “Remain in light” il capolavoro assoluto dei Talking Heads, ma poi se a distanza di anni ci tocca scegliere se ascoltare “Psychokiller” o “Crosseyed and painless”, “Take me to the river” o “The great curve”, come ci regoliamo? Scegliamo il piacere fisico del muoversi e cantare seguendo una canzone, o quello prevalentemente mentale che ci deriva dal percepire suoni nuovi, strutture nuove, giustapposizioni mai sperimentate prima? Posta su un piano più generale, la questione, come si capisce facilmente, è più che spinosa e di certo non è di quelle per cui vale più di tanto la pena porsi il problema se sia da preferire un punto di vista piuttosto che un altro. Rimane il problema della capacità di coniugare innovazione e godibilità, di spiazzare l’ascoltatore abbastanza – perché evidentemente non si può rimanere sempre fermi – ma non troppo, per evitare che il prodotto musicale cessi di vivere di vita propria e diventi strettamente dipendente dall’idea che l’ha generata.
Sono di questo genere le considerazioni che possono venire alla mente ascoltando l’ultimo album, “Scale”, dell’inglese Matthew Herbert, musicista geniale e controverso dalla produzione ormai già sovrabbondante, non molto noto dalle nostre parti, che spesso, ma non sempre, pubblica sotto mentite spoglie (Wishmountain, Doctor Rockit, Radio Boy sono i suoi pseudonimi). Herbert è allo stesso tempo uno sperimentatore e un eclettico, un provocatore ma anche un fine cesellatore, uno che riesce come pochi a saltare agevolmente da un genere all’altro restando ancorato ad un proprio progetto di fondo, che è quello di rinnovare e mescolare generi musicali consolidati, in qualche caso anche rivoltando e destrutturando, principalmente mediante l’elettronica e la rielaborazione del suono. La forte componente ideologica che contraddistingue il progetto porta ad esempio Herbert-Radio Boy a dar vita nel 2001 ad un album come “The mechanics of destruction” in cui vengono campionati e utilizzati, e la cosa ci fa un po’ sorridere, i suoni provocati dalla distruzione degli odiati simboli del capitalismo (la lattina di Coca-Cola, le scarpe Nike e vari altri). E anche quando, da musicista coi fiocchi quale è (studi classici di piano iniziati all’età di quattro anni), dà sfogo alla sua passione per le atmosfere swing-jazz partorendo, a capo di un’orchestra di sedici elementi, il notturno e cinematografico “Goodbye swingtime”, Herbert aggiunge al suono di strumenti tradizionali il rumore di fotocopiatrici che stampano documenti antagonisti o quello di pagine di libri di Chomsky che vengono sfogliate. Ora, diciamoci la verità, l’operazione di integrazione della musica col messaggio può apparirci anche abbastanza ingenua, e alla fin fine se se ne parla è solo perché tutto si appoggia a soluzioni sonore che funzionano in termini di godibilità. Ed è così che di un album interessante come “Scale”, appunto l’ultimo della sua produzione, molto più del messaggio associato al suono ci convince il suono stesso e la trasformazione che Herbert ha realizzato della canzone muovendo da una prospettiva che è prevalentemente “interna”. I pezzi dell’album iniziano in un modo, vanno avanti sghembi e repentinamente mutano per seguire la strada che non ti aspetti, spesso una lungo la quale l’innovazione formale si coniuga al già sentito, e non aspettatevi melodie ben definite, non aspettatevi di poterle cantare queste canzoni, perché vi richiedono attenzione e allo stesso tempo vi sfuggono, svaporano e poi riappaiono. Inevitabilmente non tutto gira alla perfezione, e d’altra parte tre o quattro canzoni belle su un intero album di solito bastano già a farci pensare che abbiamo speso bene i nostri soldi, ma la sensazione è che “Scale” debba a giusta ragione essere considerato come uno dei seminal album dello scorso anno e Matthew Herbert uno dei musicisti più felicemente e godibilmente innovativi attualmente in circolazione.